«Milano avrà l’Expo grazie a Trieste»

Il 30 maggio 2011, giorno della batosta al ballottaggio contro Cosolini? Pure quello gli brucia ancora. Basta però parlarci senza fretta, davanti a un caffè, per intuire come per Roberto Antonione la vera data del rimpianto, da politico, resti il 16 dicembre 2004. Quella in cui, a Parigi, da sottosegretario agli Esteri, da triestino che più di tutti s’era giocato la faccia nella candidatura della città all’Expo tematica del 2008, dovette ingoiare l’amarissimo scrutinio del voto dei delegati del Bie: nella corsa a tre con Salonicco, fatta fuori al primo turno, alla fine Saragozza superò Trieste 57 a 37.
Nel decennale di quella serata da depressione collettiva, l’ex uomo forte di Forza Italia ripiglia i ricordi, ne racconta di inediti e sentenzia a bocce ferme. Per Antonione, ad esempio, Milano si è presa l’Expo universale del 2015 anche grazie alla sconfitta di Trieste per l’Expo specializzata del 2008, mentre Trieste non ha saputo più rialzarsi da quel ko. Un ko, rimugina Antonione, cui contribuì il lavoro ai fianchi fatto nell’ombra da quel pezzo di città che non voleva che Porto Vecchio diventasse il fulcro dell’operazione: «Un pezzo di città che, di facciata, si mostrava in sintonia con la candidatura, come quando tutti saltarono sul carro della delegazione diretta a Parigi per il voto. Ma che, dietro le quinte, vigliaccamente, lavorava in senso opposto. È un fatto tragicamente risaputo. L’anno dopo quella serata il segretario generale del Bie Loscertales mi confermò che nel suo ufficio, a Parigi, c’era un armadio pieno di lettere anomime arrivate proprio da Trieste che dicevano che Porto Vecchio non era nelle disponibilità del Governo italiano e che un suo utilizzo nel caso in cui ci fossimo aggiudicati l’Expo avrebbe innescato un vortice di cause senza fine».
Partiamo da quella sera a Parigi. Quali ricordi?
Tristi. Le aspettative erano alte. L’emozione di una città in attesa, collegata in diretta tv, col maxischermo in una piazza Unità piena, era fortissima. Il fatto che si fosse venuta a creare una sintonia così ampia, in un territorio che non è solito manifestarla, aveva amplificato l’entusiasmo. La sconfitta fu molto dolorosa.
Ma lei ci credeva per davvero? Saragozza era alla seconda candidatura.
Ci credevo eccome. Ci credevamo tutti. Sennò non si sarebbe potuto spiegare il convinto coinvolgimento del premier Berlusconi e del presidente Ciampi. Io stesso, accompagnando all’estero il presidente, mi resi conto di quanto si spendesse per noi nei suoi dialoghi con gli altri capi di Stato.
E a mente fredda?
A mente fredda va riconosciuto che Saragozza, alla fine, seppe giocare meglio le sue carte.
Lavorando nel sottobosco diplomatico?
No, no. Ha rapporti storicamente privilegiati con l’America latina e le monarchie. Eppoi, semplicemente, era alla seconda candidatura. Successi al primo colpo sono rarissimi, nella storia. Prendete Milano 2015. Milano mica era alla prima candidatura. Era alla seconda. La prima era stata quella di Trieste. Non è una città che si propone, ma un paese. Milano ha ottenuto questo risultato grazie al nostro lavoro mentre a Trieste la sconfitta di dieci anni fa, anziché stimolare le istituzioni locali a rilanciare una nuova sfida, le ha smontate del tutto.
In fin dei conti non erano esagerate, le aspettative?
No, assolutamente. Anche chi non ci ha votato ci ha riconosciuto un’ottima campagna, di alto livello. Era da quella base che si sarebbe dovuti ripartire.
È vero che Fini, allora vicepremier e ministro degli Esteri, che venne a Parigi per spendersi in prima persona, dopo il voto se la prese con lei perché l’aveva convinto a metterci la faccia?
È totalmente falso. Ci credeva come me. Forse il capo funzionario della Farnesina, l’ambasciatore Claudio Moreno, non seppe interpretare in modo preciso certi segnali diplomatici creando aspettative più alte rispetto alla realtà. Anzi, Fini diede molto sostegno a me e alla città. E fu il primo che tentò di risollevarmi. Disse: “Roberto, tu hai fatto quello che potevi fare, ad impossibilia nemo tenetur”. Anche lui riconobbe che in città in tanti mi avevano remato contro.
Gliel’avrà raccontato Menia.
Menia mi diede allora una grande mano. Quando si trattava di avviare la candidatura io convinsi Berlusconi, ma era Tremonti l’osso più duro. Parlai con Menia, Menia parlò con Fini e Fini fu uno di quelli che parlarono con Tremonti.
Quanto spese lo Stato per la candidatura?
Difficile quantificare. Spese certamente. La Farnesina mise su una struttura, ci furono missioni, incontri, eventi diplomatici. Un investimento, ripeto, raccolto da Milano.
E Trieste quanto spese?
Questo bisognerebbe chiederlo ai reggitori di allora. Anche la città però spese, trainata dalla Farnesina.
Alla luce delle esperienze altrui, tipo quella della stessa Saragozza, che si ritrova ora con grandi contenitori vuoti e grandi debiti, meglio così?
Ma no. Come si fa a dire una cosa del genere.
Dipiazza l’ha detto.
Sappiamo com’è fatto, è un istintivo. Andiamo solo a vedere Porto Vecchio così com’è. È meglio così? Io dico di no. Se avessimo vinto l’Expo avremmo avuto infrastrutture più moderne, più veloci. L’aeroporto sarebbe stato potenziato, i collegamenti con la città pure. Immagino più parcheggi, una viabilità migliore. Immagino più occupazione, una Trieste più attrattiva. Tutto questo sarebbe stato figlio di un debito o di un investimento? Eppoi l’esempio con Saragozza non sta in piedi. Saragozza è fuori dal mondo. Trieste è al centro dell’Europa.
A proposito di Dipiazza. Promise: se perdiamo me ne vado.
È un uomo passionale, fa parte del personaggio, non lo scopro mica io.
Ma ritiene che Porto Vecchio, in tre anni e poco più, sarebbe riuscito a rinascere?
Certo sarebbe stata una sfida contro il tempo. Però pare che a Milano debbano fare tutto in un anno solo...
Era pronta, in caso di vittoria, una bozza di legge per la sdemanializzazione di Porto Vecchio. Che fine fece?
Non esisteva, in realtà. Io, Menia e Rosato ci provammo con un emendamento, successivamente. Non fu accolto. Il porto di Genova è stato sdemanializzato con un emendamento alla Finanziaria. Non è complicato tecnicamente. Lo è politicamente.
Chi non voleva l’Expo si appellò al Trattato di Pace.
Lo Stato italiano ha nell’Ufficio del contenzioso diplomatico del Ministero degli Esteri l’organismo col compito di dare la più alta interpretazione in materia internazionale. Interpellato, ha sempre detto che quello è territorio italiano a tutti gli effetti. Servirebbe che gli altri paesi firmatari del Trattato, o gli eredi, se ne opponessero. Non credo che nessuno si metterebbe oggi a farci la guerra per questo.
Che peso ebbero le lettere in chiave anti-Expo fatte girare per il mondo, che facevano riferimento proprio al Trattato di Pace e al regime di franchigia internazionale di Porto Vecchio?
Non lo so. Difficile dirlo.
Ma chi le spedì?
Lo sapessi, se avessi avuto elementi certi, l’avrei denunciato. Ma sono solo congetture. Al di là delle lettere anonime spuntarono però anche citazioni al Tribunale, benché poi sospese. Quelle sì firmate, dalla Tripmare se non ricordo male. Sicuramente quella fu un’iniziativa dirompente. Una delle cause della sconfitta. Se li immagina i messi giudiziari alle ambasciate portatori di notizie di un contenzioso italiano sulla candidatura italiana all’Expo?
A sconfitta incassata, rivelò di aver ricevuto minacce politiche. Da chi?
Ho come rimosso. Non è reticenza, mi creda. Ricordo solo che a un certo punto mi piovvero addosso minacce pesantissime. Una sensazione bruttissima.
Di quali politici conserva un ricordo positivo all’epoca della candidatura all’Expo?
Come ho detto anzitutto di Menia. Poi di Illy e pure di Rosato, anche se era dalla parte politica opposta. E di Dipiazza, pur con i suoi limiti.
Caratteriali?
No, limiti di vincolo dalla politica. Le faccio un esempio: Dipiazza il Piano regolatore, da sindaco, l’avrebbe voluto portare a casa. Non ce l’ha fatta, ma non per colpa sua.
Di quali politici conserva invece i ricordi più negativi dell’esperienza Expo?
Sono caduti nell’oblio. Non vale neanche la pena citarli.
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