Monfalcone, faceva attività “pesanti” in malattia. Licenziato, l’operaio ottiene il reintegro

Per Fincantieri il triestino nella sua condizione s’era cimentato in lavori faticosi. Il giudice: guarigione non pregiudicata
Bonaventura Monfalcone-09.05.2018 Incidente mortale-Fincantieri-Monfalcone-foto di Katia Bonaventura
Bonaventura Monfalcone-09.05.2018 Incidente mortale-Fincantieri-Monfalcone-foto di Katia Bonaventura

MONFALCONE. Era stato licenziato da Fincantieri poiché in regime di malattia aveva svolto attività ritenute «incompatibili» con la patologia subita a causa di un infortunio, un incidente stradale mentre si recava al lavoro, provvedendo peraltro all’assistenza della figlia disabile nell’accompagnarla in ospedale. L’operaio, E.P., triestino, ha ottenuto il reintegro in cantiere. Lo ha sancito il Tribunale civile di Trieste, disponendo anche il recupero degli stipendi, e relativa copertura previdenziale-assistenziale, a partire dal giorno dell’allonanamento definitivo fino al ritorno in fabbrica. La Sezione lavoro, con il giudice Paola Santangelo, ha inoltre condannato l’azienda al ristoro delle spese legali quantificate in 3.500 euro. Dunque, il lavoratore, rappresentato dagli avvocati Sascha Kristancic e Michele Latino Quartarone, non ha pregiudicato, né ritardato la guarigione.

La vicenda risale all’aprile 2018, quando l’uomo, dipendente del cantiere navale dal 2001, addetto al controllo di qualità, era stato licenziato per giusta causa. Tutto era partito dall’incidente stradale, lo scorso marzo. Il giovane operaio nel recarsi al lavoro aveva subito un tamponamento che gli aveva procurato una distorsione cervicale ed una contusione lombo sacrale. Un infortunio per il quale aveva prolungato la malattia, provvedendo a fornire i relativi certificati Inail attestanti l’inabilità al lavoro. L’azienda, da parte sua, s’era affidata ad investigatori privati al fine di verificare le effettive conseguenze del sinistro stradale, ed il rispetto degli accorgimenti necessari al recupero delle forze fisiche del dipendente. Dai controlli eseguiti, aveva rilevato che il dipendente s’era cimentato in attività «improprie», quando non anche pregiudizievoli al ripristino della salute. Con ciò ritenendo peraltro come il suo impegno in cantiere non fosse così «debilitante» da giustificare l’assenza dal lavoro. Sempre dai controlli eseguiti l’uomo aveva accompagnato la figlia disabile all’ospedale. Aveva inoltre aiutato la moglie a scaricare dall’auto la spesa, portando in casa un imballaggio contenente latte o bevande. Fino al trasporto di «pesanti sacchi di immondizia» e altro materiale. E ancora, l’uscita dal supermercato con le borse della spesa. Insomma, per l’azienda il tutto comprovava la compromissione della guarigione del dipendente. Non per il giudice del Tribunale civile di Trieste che, preso atto delle certificazioni Inail attestanti l’inabilità al lavoro, ha sostenuto come le attività svolte dal lavoratore durante la malattia fossero «decisamente limitate nell’arco della giornata», certamente comunque «non equiparabili ad un orario di lavoro ordinario». Attività ridotte, dunque, non potendo peraltro desumere dai controlli aziendali eseguiti la gestione di pesi tali da acuire la patologia o ritardare il recupero della piena salute.

Secondo il giudice «non si può affermare che il dipendente abbia svolto un’attività comparabile a quella lavorativa, che richiede una continuità ed un impegno di altra intensità e portata». Il Tribunale triestino ha mutuato i principi stabiliti da una sentenza di Cassazione argomentando che «il lavoratore assente per malattia non per questo debba astenersi da ogni altra attività». La stessa attività «non solo dev’essere compatibile con lo stato di malattia, ma dev’essere altresì conforme all’obbligo di correttezza e buona fede» da parte del lavoratore, nell’adottare «ogni cautela idonea perché cessi lo stato di malattia». In conclusione, «il datore di lavoro non ha dimostrato la sussistenza della giusta causa del licenziamento. Non è stata infatti provata che la patologia non esistesse, che le condotte del lavoratore erano idonee a pregiudicare la guarigione e che avrebbe dovuto offrire una prestazione lavorativa».

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