QUANDO IL CINEMA È ARTE

Con la morte di Michelangelo Antonioni il cinema inteso come espressione artistica piuttosto che come spettacolo perde uno dei suoi più alti esponenti.


ROMA Michelangelo Antonioni è morto lunedì sera, verso le 20. Si è spento serenamente in casa, su una poltrona, con accanto la moglie Enrica Fico. Il grande regista era nato il 29 settembre del 1912 a Ferrara. Laureatosi in Economia e commercio si era accostato al mondo del cinema lavorando come critico al «Corriere padano» e a «Cinema» Oggi in Campidoglio la camera ardente. I funerali si svolgeranno domani a Ferrara. di Paolo Lughi Si può dire che Michelangelo Antonioni è stato il De Chirico del nostro cinema (come Fellini ne è stato il Guttuso).


Forse un enigmatico «genius loci» fa sì che Antonioni nasca a Ferrara nel 1912, e che nella stessa città si incontrino nel 1916 De Chirico e Carrà, teorizzando la prima pittura metafisica. E il cinema di Antonioni, dai tempi di «Cronaca di un amore», del «Grido», della «Notte», è geometria dell’immagine, è disagio onirico, come un quadro di De Chirico. La grandezza di Antonioni è stata anche questa: la sua sensibilità figurativa, la limpidezza misteriosa del suo universo visivo, fatto di sequenze ardite e immagini inafferrabili, di miraggi ed eclissi, di continue riflessioni sullo sguardo. Ma pure si può dire che Antonioni è stato il Buzzati (o il Robbe-Grillet) del nostro cinema. Innovatore del racconto cinematografico, ne ha imprigionato e rarefatto il ritmo tradizionale in una ragnatela fatta di silenzi, attese, vuoti.


Come avviene nel finale dell’«Eclisse»: i due protagonisti non si presentano a un appuntamento, lo schermo resta senza personaggi, si «desertifica» (come spesso accade nei suoi lavori), eppure il film continua, le immagini scorrono mostrandoci l'ineluttabile stato delle cose. I suoi gialli senza regole, i suoi strani espedienti narrativi (la partita a tennis senza palla di «Blow-up») scompigliano le attese, gettano nello smarrimento personaggi e spettatori. Con Antonioni il cinema ha conosciuto temi e parole come alienazione, incomunicabilità, nevrosi. Considerato alla stregua di un filosofo, è stato un regista sempre in sintonia con le angosce intellettuali del moderno, proto-esistenzialista e proto-beat.


I suoi primi personaggi sono già «sulla strada», il loro viaggio è inquietudine antiromantica, ipnotica ricerca di se stessi. «Lidia cammina lentamente, si vede che non ha una meta», recita la sceneggiatura della «Notte». Eppure questo inventore di atmosfere astratte, di gialli psicologici, di gesti inutili, affonda le sue radici cinematografiche nel calderone dei generi popolari dell’ultima, contraddittoria, Cinecittà fascista. Intellettuale borghese, esigente e raffinato, è sceneggiatore di filmoni in costume e del Rossellini di «Un pilota ritorna» (1942). Aiuto-regista di Carné a Parigi, dopo una solida attività critica realizza con maestria un documentario d’esordio, «Gente del Po» (1943), che mostra tutte le tensioni neorealiste, girato contemporaneamente e a poca distanza da dove Visconti girava «Ossessione».


Profondo conoscitore del cinema italiano, Antonioni vive poi un periodo difficile nel dopoguerra, vedendo sfumare una serie di occasioni: due sceneggiature per Visconti non vengono realizzate, il soggetto dello «Sceicco bianco» gli viene rubato da un produttore. Debutta quasi quarantenne nel lungometraggio con «Cronaca di un amore» (1950) storia di due amanti impossibili a Milano, invischiati in un giallo. Sui canali e gli argini lombardi, freddi e ostili, Antonioni filma il suo tema preferito: l’ambiguità morale, sentimentale, culturale della borghesia. «È il primo serio tentativo di descrivere la società settentrionale», scrive Ennio Flaiano.


In un’epoca in cui il cinema ancora si rivolge ai grandi drammi del popolo, Antonioni è il primo a scandagliare il privato, senza per questo rinunciare alla critica sociale. Lo fa già col suo stile personale, indagando i personaggi con lunghe inquadrature mobili (i «piani sequenza»), che fanno assumere al mondo contorni astratti e valenze simboliche. È un cinema che si muove in spazi più interiori e geometrici che reali, in una dimensione appunto dechirichiana, «dove le cose proiettano in modo inquietante, come totem, le loro ombre sulle persone», scrive Giampiero Brunetta. Antonioni comincia a far discutere, ma passano piuttosto in penombra la demistificazione di Cinecittà di «La signora senza camelie» (1953) e la sottile lettura di Pavese di «Le amiche» (1955). Nel 1957 giunge la prova celebre e severa de «Il grido», per cui viene coniata la definizione di «neorealismo interiore».


Entra in scena il suo primo personaggio errabondo, un operaio in crisi personale che vaga in un paesaggio padano inquinato dai segni del progresso, fino al suicidio finale. Film «scandaloso» per la sinistra italiana perché aggregava un personaggio proletario al deserto esistenziale, «Il grido» viene acclamato dalla critica francese, e rappresenta l’opera di transizione verso quel ciclo che fisserà appieno lo stile e la poetica del regista. I film del quinquennio ’60-’64, glaciali, implacabili, rivoluzionari, ne fecero un maestro internazionale, la punta avanzata del cinema moderno: «L’avventura» (gran clamore a Cannes), «La notte», «L’eclisse», «Deserto rosso» (Leone d’oro a Venezia).


Ambienti e personaggi intellettuali, altoborghesi, industriali, invariabilmente chic, descritti durante le vacanze in barca, la dolce vita delle feste notturne, gli impegni professionali alla Borsa o in azienda: le storie di Antonioni accarezzano la superficie di un mondo dorato per riflettere la sostanziale impotenza a governare il destino proprio e altrui. L’irrompere disordinato di nuove tecnologie, di nuovi consumi, di nuovi equilibri morali, di nuovi miti (il successo), mette in crisi la coscienza dell’uomo attestata su vecchie consuetudini. Dopo questa lunga, impietosa analisi della società italiana, Antonioni sposta il suo sguardo fuori dai nostri confini, e dal punto di vista della propria professione si sofferma sull’ambiguità del reale.


Il film di svolta è il capolavoro «Blow-up» (1967, Palma d’oro a Cannes), ambientato in una «swingin’ London» piena di icone pop, da Verushka a Jane Birkin, in cui un fotografo alla moda scopre un possibile omicidio sullo sfondo incerto di una pellicola impressionata. E la verità tende a sottrarsi anche ad altri sguardi che appartengono, in definitiva, allo stesso Antonioni: quelli del giornalista televisivo di «Professione: reporter» (1975), e del regista di «Identificazione di una donna» (1982). Autore rigorosamente umanista ma curioso della tecnologia, intransigente ma attento a registrare le variazioni del presente, Antonioni è spesso il primo a esporsi su mode, tendenze, sommovimenti. Elabora un apologo apocalittico sull’America e sulla contestazione in «Zabriskie Point» (1969), compie un viaggio documentario in Cina con «Chung Kuo» (1972), prosegue elettronicamente nel «Mistero di Oberwald» (1980) gli esperimenti sul colore che avevano caratterizzato «Deserto rosso».


Dopo l’ictus che nel 1985 gli toglie la parola, Antonioni incontra prevedibili, crescenti difficoltà nel realizzare progetti, fino all’imprevedibile successo di critica e di pubblico raggiunto con «Al di la delle nuvole» (1995), appassionato gioco sentimentale a episodi tratto da un suo libro di racconti, «Quel bowling sul Tevere». Lo assiste nella regia Wim Wenders, uno dei tanti protagonisti del cinema moderno suoi ammiratori di sempre, che gli devono stile e ispirazione, da Godard a Coppola («La conversazione»), da Altman a Polanski, da Bellocchio a Jarmush, da Amelio a Brian De Palma («Blow out»). Lui, invece, non aveva maestri: «Ho avuto per maestri i miei occhi», diceva.

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