Quando Slataper seguiva il Buddismo

Si ispirò anche al buddismo e all’induismo Scipio Slataper, nella stesura de “Il mio Carso”, autobiografia spirituale e unico romanzo del grande scrittore triestino morto sul Podgora nel 1915. Qua e là, nel testo, ci sono tracce evidenti e citazioni tratte da “Il canto divino o Bhagavad-gita”, poema religioso contenuto nel grande poema epico “Mahabharata”. Lo spiega l’editore e libraio antiquario Simone Volpato, che ha acquisito quattro libri appartenuti a Slataper, siglati e chiosati per mano dello scrittore. Si tratta della raccolta di novelle “Terra vergine” di D’Annunzio (1907) e di altre tre opere che aprono squarci illuminanti sul rapporto tra lo scrittore e l’Oriente: il “Nagananda o il Giubilo dei serpenti” (1903) nella traduzione di Francesco Cimmino (con firma di possesso “Scipio Slataper 1910”), il “Bhagavad-gita o Il canto divino” curato da Oreste Nazari (1904) e il “Mahabharata” curato da Paolo Emilio Pavolini (1902). Libri che Slataper recensì nel Bollettino bibliografico de “la Voce”, notando che scriveva “queste quattro righe semplicemente per far reclame a una collezione ottima che gl’italiani pare non apprezzino...C’interessano poco delle grandi civiltà. Non studiamo le lingue. Non viaggiamo. Viviamo nel nostro orizzonte di pochi metri di circonferenza, fosco di tanfo provincialista e gallico (...)”.
Ora il ritrovamento dei volumi originali letti e compulsati da Slataper dimostra una frequentazione dei testi e degli argomenti meno occasionale di quanto possa sembrare. «Prendiamo “Il canto divino o Bhagavad-gita” - spiega Volpato –: la lettura VI è tutta dedicata al tema dell’ascetismo e della solitudine: l’asceta, che ha vinto il proprio Io, è raccolto nel “freddo e nel caldo, nel piacere e nel dolore, nella stima e nella disistima”. Nel mio Carso, paragonandosi al monte Kal il narratore dice: “Io sono come te freddo e nudo, fratello. Sono solo e infecondo; Non disturbare il freddo silenzioso dell’universo”». Ancora, se l’asceta deve esercitarsi continuamente stando “in disparte solitario, franti i pensieri e se stesso, bandite le speranze, senza compagnia”, ecco nel “Mio Carso” che “la gente non crede che io sia freddo e calmo e che la loro miseria mi dà semplicemente un senso di noia”. Anche l’esemplare del “Mahabharata” nella traduzione di Pavolini, continua Volpato, «presenta varie annotazioni in sanscrito, e l’attenzione si sofferma soprattutto sul libro dei precetti di Bhisma che presenta una serie di massime morali adottate da Slataper». Del resto, quando lo scrittore triestino si trasferì a Firenze per frequentare l’Istituto di Studi Superiori, decise di seguire tra i corsi complementari glottologia, tedesco e appunto sanscrito, mentre proprio nella città del giglio il buddismo e le arti orientali dell’India erano già conosciute e diffuse grazie al Museo Indiano (poi confluito nel Museo di nazionale Antropologia ed Etnologia di Paolo Mantegazza) fondato nel 1886 da Angelo De Gubernatis, e a una fiorente attività editoriale come i libri della collana “La cultura dell’anima” dell’editore Carabba, in circolazione dal 1909. Ma l’attrazione per l’Oriente, che si sarebbe diffusa in Occidente soprattutto negli anni della beat generation, trovò terreno fertile a Trieste già tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento non solo tra gli intelettuali e gli artisti (lo stesso Svevo con i libri giapponesi della sua biblioteca, a Gorizia Michelstaedter chiamato da Mreule “Il Buddha dell’Occidente”, il pittore Vittorio Bolaffio, che nel 1912 si imbarcò come fuochista raggiungendo l'India e l'Estremo Oriente, ecc.), ma anche tra la borghesia mercantile, come testimoniano oggi le straordinarie collezioni conservate al Museo d’Arte Orientale di Trieste.
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