Quei calci al pallone sul sagrato tra chiacchiere, cani e nostalgie

Bimbi rumeni, serbi e italiani giocano insieme sotto lo sguardo degli anziani del rione Le scale della chiesa diventano rampe per il monopattino. E la spesa si fa a km zero
Il termometro che si trova sopra la farmacia segna 32 gradi, mentre il caduceo - il bastone alato con i due serpenti intrecciati -, sembra guardare affaticato alla striscia di asfalto sottostante. La strada, come un’arteria, drena il traffico di automobili e motorini verso il colle di San Giusto e in direzione di via dell’Istria, dalla parte opposta. San Giacomo è un paese nella città, «forse uno dei pochi rioni rimasti a Trieste», il cui baricentro risiede in una piazza al centro della quale sorge la chiesa - la cui imponenza fa pensare a una basilica -, che è stata progettata nella seconda metà dell’Ottocento dall’architetto Giuseppe Sforzi. Le gru del porto, che si scorgono da campo San Giacomo guardando giù verso via dell’Industria, sembrano le sentinelle della memoria di un quartiere che è nato con i primi complessi industriali, per ospitare il sonno dei lavoratori. Adesso la nuova classe operaia che anima la piazza al termine di una faticosa giornata di lavoro, «nel settore di un’edilizia che non sembra voler uscire dalla crisi», è composta da nomi provenienti dai Balcani e dall’Est Europa.


L’edicola di Alberto Nassimbeni è come una piccola torre di avvistamento. La sua attività si affaccia sulla strada da diciotto anni. Conosce tutti e se guadagnasse un euro a ogni passante che lo saluta, a quest’ora sarebbe già ricco. E invece il suo settore è in crisi: «Da qua a dieci anni le edicole spariranno - le sue parole - . Da me si fermano per comprare i biglietti del bus e chiedere informazioni. I turisti sono aumentati notevolmente rispetto al passato, vista la presenza in zona dell’hotel San Giusto e di numerosi b& bt».


L’anima di San Giacomo è ancora popolari, ma il rione non è più la roccaforte rossa di un tempo. «Per il primo maggio eravamo abituati a ordinare un surplus di copie del quotidiano L’Unità - spiega l’edicolante -, mentre adesso la gente i giornali non li legge più». Nassimbeni fa un cenno con la mano a Federico e Simone, due fratelli di nove e sei anni che assieme alla mamma sono appena andati a rinnovare il loro rituale estivo davanti ai frighi della gelateria Giacomino. «Abbiamo da poco terminato gli allenamenti all’Artistica ’81 - spiega Elisabetta Franza - e ci siamo concessi un gelato. La pedonalizzazione della via alle spalle della chiesa ha trasformato questo luogo, che adesso mi sembra ancora più frequentato da giovani. I miei figli hanno imparato ad andare in bicicletta in questa piazza e come loro molti altri bambini».


In effetti la chiesa è circondata di persone. C’è chi porta a spasso il cane, chi siede rilassato su una panchina, chi gioca a pallone e chi utilizza le scale che portano alla canonica per fare le evoluzioni con il monopattino. Silvia Zarotti ha 88 anni e vive a San Giacomo dal 1960. La mattina fa la spesa alle bancarelle del mercato, mentre il pomeriggio siede su una panchina «con le amiche di una vita» all’ombra dei grandi alberi che sorvegliano la piazza. «Questo posto è diventato il gabinetto dei cani - esclama sconsolata -. Non ce l’ho con gli animali, ma con i loro padroni maleducati. Veniamo qua a prender fresco e a fare quattro chiacchiere, ma bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi». Zarotti, come l’amica Tina, la più giovane del gruppo con i suoi 77 anni portati con eleganza, quando può si serve alle bancarelle della Coldiretti che alle spalle della chiesa vendono i prodotti a chilometro zero degli agricoltori di Trieste e di Gorizia. «La mattina andiamo a messa e poi ci beviamo un caffè - spiega la signora Tina - . La chiesa è un importante punto di riferimento per tutte noi. Ricordiamo sempre con affetto gli scomparsi don Mario Cosulich e don Mario Benco, ma adesso abbiamo don Roberto Rosa che
xè un tesoro
». Lidia Pontin abita in scala Stendhal e con il marito Sergio, novantenne, viene ogni giorno in campo San Giacomo a bere un caffè e a trovare le amiche. «
I giovani zoga a balon e spaca tuto
, ci vorrebbe più sorveglianza», esclama arrabbiato il signor Sergio, prima di venir ripreso dalla moglie: «
Se i giovani no gioga
– replica la signora ottantasettenne -
cossa i ga de far ?
». Due bambini intanto calciano un pallone contro il muro della chiesa, mentre dall’altra parte dei mattoni la funzione religiosa delle 18.30 è animata dai canti di non più di venti persone anziane.


Valentina Mastronardi vive a Trieste da cinque anni, dopo aver seguito il marito che fa il militare dell’Esercito alla caserma Brunner di Opicina. «Veniamo da Bari - spiega - e anche da noi è normale che i bambini crescano nelle piazze, che noi chiamiamo “ville”. Per questo vengo a giocare nel parchetto con i miei figli Emma e Christian». L’integrazione alle volte nasce anche ai piedi di uno scivolo, con bambini rumeni, serbi e italiani che giocano insieme. Le mamme si scambiano le ricette a pochi metri di distanza, dopo essersi lamentate per le condizioni della piazza. Rodica Martie è nata nella zona di Maramures, in Romania, al confine con l’Ucraina, ed è arrivata a Trieste sei anni fa. «Frequento la piazza tutto il giorno - puntualizza - e non ho mai notato momenti di tensione fra persone di etnia diversa. Le uniche arrabbiature le abbiamo con chi lascia liberi i cani o sporca le panchine». Sul fronte sicurezza non sembrano esserci particolari emergenze, anche se qualcuno si lamenta per gli schiamazzi notturni. «Se tieni le finestre aperte di notte non riesci a dormire - così Maria, una giovane ragazza rumena che ha una figlia di undici mesi - . La gente si ubriaca e fa casino, specie il venerdì».


Le panchine, ogni mattina, raccontano i bagordi della nottata appena trascorsa. Una decina di lattine di birra Oettinger, portate via dal supermercato a 49 centesimi l’una, sono state abbandonate accanto al parco giochi. Qualche decina di metri più in là, i tavolini di Zenzero e Cannella continuano invece a dimostrare che non esiste solo la movida di via Torino e che la qualità, per utilizzare le parole del gestore Massimo Ferigutti, «la si può trovare anche nei locali di periferia». Darius Bork si è trasferito qui da Berlino nel 2016, per continuare a occuparsi di arte. «Questa piazza è speciale - racconta mentre alza un calice di Prosecco - , non è patinata come Cavana, ma è viva e autentica. La gente è amabile e c’è un mix di culture eccezionale che unisce il Nord Europa all’area del Mediterraneo. Qui ho trovato il luogo che cercavo e - sorride - anche la migliore pescheria di Trieste». Non mancano però le marginalità sul colle di San Giacomo. Lo testimonia l’opera di don Roberto Rosa, che distribuisce vestiario e viveri agli indigenti due volte al mese, e lo conferma anche Massimo Patuna, figlio del titolare della farmacia che sei giorni su sette serve il territorio.


«Vendiamo parecchie siringhe - rileva Patuna - e la presenza dei tossicodipendenti è evidente, anche se inferiore rispetto al passato». Eppure c’è chi continua a considerare San Giacomo come il proprio salotto di casa. «Veniamo qua ogni giorno a chiacchierare e a respirare un po’ di aria», sorride il sessantaseienne serbo Radko Stamatovic, prima di accendersi l’ennesima sigaretta della giornata.


3. - continua


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