Quell’atto di generosità della baronessa Cecilia

«Il Municipio di Trieste avrà cura di investire con sicurezza pupillare il capitale che gli lascio e che dovrà essere conservato con il carattere di fondazione perpetua portante il nome di...

«Il Municipio di Trieste avrà cura di investire con sicurezza pupillare il capitale che gli lascio e che dovrà essere conservato con il carattere di fondazione perpetua portante il nome di “Fondazione barone Carlo e baronessa Cecilia de Rittmeyer. Questo capitale dovrà servire per erigere a Trieste uno stabilimento che dia ricovero e mantenimento - e se possibile anche istruzione - a poveri ciechi». Questo si legge nel testamento olografo che Cecilia de Rittmeyer redasse il 2 luglio 1900 e che fu aperto il primo marzo 1911 dagli esecutori testamentari, l’avvocato Francesco Schellander, il negoziante Giovanni Luders e il “privato” Oscar de Escher. L’atto di generosità della baronessa si inserisce nelle numerose attività filantropiche di quell’epoca. La coppia non aveva figli e la scelta di aiutare “i poveri ciechi” si rivelò vincente. Oggi l’istituto, abbandonato l’antico assetto di fondazione privata, è diventato un’istituzione pubblica collegata al Ministero degli Interni.

Diversa risulta invece la sensibilità del marito, il barone Carlo che da consigliere comunale propose di acquistare una nave da destinare a riformatorio per ragazzi discoli e vagabondi. «Ogni volta che si parla di questi ragazzi pare che si voglia indossare i guanti bianchi. Si crede forse che debbano essere tenuti sul velluto, anche se rubano sulle vie e divengono di giorno in giorno del tutto perversi. Non so perché si debba avere tanto timore che questo bastimento sia anche un mezzo di correzione o di rigore. Non è per ricompensarli, come non è da fabbricare un palazzo dove abbiano a stare comodamente». Il progetto della nave–riformatorio o meglio prigione, non fu realizzato. Non per umanità o rispetto dei “diritti civili”. Bensì per i costi troppo alti, insopportabili per le casse comunali.

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