«Qui la Polfer punti sulla prevenzione Verifiche con le Fs»

Gli abiti dell’avvocato non la vestivano a pennello. Lo studio del papà non poteva più scommettere sull’unica figlia laureata in Giurisprudenza. Così Annarita Santantonio, 54 anni, nell’88 è entrata nel corpo di Polizia. Originaria di Racale, un paesino della Puglia in provincia di Lecce, si è spostata nel profondo Nord Est: è la prima donna ad assumere le redini del compartimento della Polizia ferroviaria Fvg. Dopo aver vinto il concorso, ha lavorato nelle questure di Palermo e Messina. E anche in quella di Bologna, dove nel 2004 si è trasferita per seguire il marito, questore oggi a Cremona, assieme ai due figli. Nel 2007 è entrata nella Polfer del capoluogo dell’Emilia Romagna. La sua è una famiglia che si riunisce quando può nei weekend, «unita con la mente», come ama dire lei, anche se separata dal lavoro, e che è al completo solo quando c’è Lucky. Il terzo figlio? No, il cane, il suo Golden Retriever.
Com’è iniziata la sua carriera?
Nella Questura di Palermo, nel Gabinetto del questore. Poi ho lavorato all’allora Ufficio stranieri. Sono passata a Messina, mi sono occupata anche delle relazioni esterne, ho fatto un po’ di commissariato, di Digos, ho girato molti uffici. Poi nel 2004 mi sono trasferita a Bologna per seguire mio marito, allora primo dirigente. La mia famiglia è al 100% nella Polizia. Così ci siamo spostati tutti e io ho iniziato a lavorare come dirigente dell’Ufficio immigrazione. Nel 2007 sono entrata nella Polfer e sono diventata primo dirigente e vicedirigente del compartimento.
Come l’ha presa suo padre avvocato?
È rimasto terribilmente deluso, ma poi ha ceduto le armi, l’unica cosa però che gli ho concesso è stato fare l’esame di Stato per diventare avvocato.
Perché non le piaceva?
Dopo aver studiato Giurisprudenza a Pisa, sono tornata pochi mesi nel mio paesino, che mi è sempre stato stretto, per fare pratica, ma non mi piaceva l’attività. Ci si deve schierare secondo le esigenze del cliente e io non sono fatta così.
Com’era Palermo quando c’era lei?
Una città meravigliosa, fortissimi contrasti e grandissimo fascino. Quando mi hanno trasferita, c’era Fernando Masone. Erano gli anni delle guerre di mafia, ma prima delle stragi.
Quando vede la famiglia?
Facciamo tanti sforzi. Per fortuna abbiamo un gruppo su Whatsapp, dove almeno ci diciamo il buongiorno, la buonanotte e le novità di rilievo. Quando siamo in ferie con mio marito, dopo i primi tre giorni, iniziamo a litigare, perché non siamo abituati: sembriamo Sandra Mondaini e Raimondo Vianello. Quando saremo in pensione sarà una tragedia. Però se fossi sposata con qualcuno che non fa il mio stesso lavoro non capirebbe quando devo lavorare a Natale o a Capodanno. Si cresce insieme.
Com’è riuscita a conciliare maternità e lavoro?
Ho solo preso l’astensione obbligatoria, poi mi sono aiutata con la baby sitter, praticamente il mio stipendio andava a lei per metà.
Le è mai capitato di portare i suoi figli in Questura?
Sì e quando la vedevano da lontano, dicevano: «No, ti prego, dici sempre che stai dieci minuti e poi vieni fuori dopo ore!».
Ha mai subito discriminazioni di genere?
No, nessuno mi ha mai detto «non ti diamo questo perché sei femmina». E non ho mai sopportato che la donna in carriera venga immaginata come la classica sfigata che non può fare famiglia, io sono l’esempio vivente del contrario. Lo dico sempre alle donne nei corsi di formazione che vado a fare: si può fare tutto.
Quante donne hanno il suo ruolo oggi?
Tantissime, ma un tempo eravamo meno di cento.
Come ha preso la notizia del trasferimento a Trieste?
Non ho dormito la notte: è la prima volta dalla nascita dei miei figli che mi allontano da loro, però ho avuto il benestare della famiglia, ritenendo che andava bene come opportunità di carriera, e hanno capito che fino ad adesso mi ero sacrificata per loro.
La sua prima impressione di Trieste?
Sono arrivata con la bora. È una città bellissima. È una bellezza più austera, aristocratica, tutta da scoprire.
E la criminalità?
Apparentemente non ha problemi, ma questo non vuol dire che non ci siano, ma comunque non dà un’immagine di degrado.
Com’è l’attività qui rispetto a Bologna?
Come lì si studiano i treni critici. Mensilmente poi con le Ferrovie di Stato analizziamo i treni cosiddetti “ad alto profilo di criticità”. Qui ce ne sono meno. In Emilia Romagna i treni sono molto popolati da chi non fa i biglietti, chi fa l’elemosina. Ho l’impressione che qui ce ne siano di meno, quindi ci possiamo permettere più prevenzione che repressione.
In particolare quali convogli?
Sui treni a breve percorrenza o a lunga percorrenza come quelli provenienti dall’estero, i treni notte che entrano da Tarvisio e vanno verso Firenze. Ci sono poi i servizi alla frontiera, quelli di pattugliamento sulle linee italo-austriache. I treni sono due di notte e cinque di giorno. A Tarvisio si sale e si fanno i controlli per verificare i requisiti, questo ci impegna molto perché dobbiamo mandare rinforzi. Oggi lì abbiamo cinque uomini, cui se ne aggiungono otto per fare i turni rotativi.
Avete anche progetti rivolti alle scuole?
Sì, si chiama “Train...to be cool”, riferito all’educazione a legalità e corretto uso del mezzo ferroviario, rivolto ai giovani di seconda e terza media e dei primi anni delle superiori.
I suoi hobby?
Leggo e faccio poca attività fisica perché mi piace troppo leggere: romanzi introspettivi e polizieschi di Camilleri e De Giovanni. In ogni ufficio di polizia, dico io, c’è sempre un Catarella.
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