Salgado, un urlo in bianco e nero: è il ritratto della Terra

Dite se non è vero: la natura è meravigliosa perché è a colori. C’è chi toglie la meraviglia del colore per raggiungerne un grado più alto, quello della verità. È Sebastião Salgado, grande fotografo, piccolo uomo che con la natura si identifica e con l’ultimo strepitoso lavoro, “Genesi”, ne amplifica il silenzio vitale, in realtà un grido struggente che si sente con gli occhi. Tutte foto in bianco e nero, come sempre le sue, che riempiranno della Terra la Casa dei Tre Oci, a Venezia, dal 1° febbraio all'11 maggio (lunedì, mercoledì, giovedì, sabato e domenica dalle 10 alle 19, venerdì dalle 10 alle 21) 240 icone che sono rivoluzione culturale e ambientale, messaggio di pericolo e di speranza, fascino estetico che si supera per diventare informazione.
Lo scopo è quello di far riflettere sul nostro pianeta, sulla sua condizione precaria dopo secoli di distruzione della natura, dopo che l’uomo stesso non si riconosce più nella natura, dopo che ha avuto la presunzione di porsi come alternativo alla natura. Non è così, Salgado lo spiega con le parole ma lo grida con le immagini. Ma come si fa a definirla una mostra didattica, anche se lo è dalla prima all’ultima immagine? Con lui la fotografia non si ferma alla documentazione, alla ricerca dell’estetica, ma diventa concetto, coscienza: salviamo la Terra, che è questa, non quella massacrata dei nostri orizzonti abituali.
Un progetto cominciato otto anni fa, alle Galapagos, natura intatta antidiluviana, e con l’incontro con una tartaruga. «La fotografavo restando in piedi e lei scappava, scocciata. Poi mi sono messo in ginocchio e si è lasciata riprendere da vicino. Ho capito che bisogna mettersi allo stesso livello». Così Salgado si è messo allo stesso livello di paesaggi, animali e uomini, nelle parti del pianeta ancora intatte, per cercare purezza e innocenza. “Genesi”, appunto, il principio, la creazione: per comprendere fino in fondo come eravamo, come dovremmo tornare ad essere.
Guardare la natura intatta e poi fuori dalle nostre finestre, per capire il cammino della distruzione galoppante. Gli ecologisti inanellano le cifre del disastro: i 25 “punti caldi” della Terra che ospitano più della metà delle specie del pianeta hanno già perduto il 90 per cento dei loro habitat naturali: lo scriveva l’inglese Norman Myers a fine anni Ottanta. Oggi questa straordinaria biodiversità sopravvive nell’1,4 per cento della superficie terrestre.
Salgado non fotografa la devastazione, fotografa quello che può salvarci. Trentadue viaggi in cinque continenti, in questi otto anni, dalle foreste tropicali dell’Amazzonia a quelle del Congo, nell’estremo nord dell’Antartide così come in Alaska e nella tundra siberiana, nei deserti africani e in quelli di Cile, Perù, Messico, Stati Uniti, in Cina e Australia; e sulle montagne di Canada, Bolivia e anche le nostre, in Italia.
In alcune sue righe il fotografo battezza questa sua esperienza “In cerca del Paradiso”: terrestre, naturalmente, dove gli equilibri non sono stati toccati, dove l’armonia tra gli elementi esiste ancora. Non è un esercizio estetico, è un credo profondo. In Brasile, Salgado assieme alla moglie Léila Wanick, ha fatto la sua parte.
È nato in un’azienda agricola, 600 ettari, che prima degli anni ’50 era ricoperta al 60 per cento da foresta tropicale. Quando negli anni ’90 l’ha ereditata assieme alle sette sorelle, la foresta era ridotta allo 0.5 per cento. Léila l’ha spinto a ricreare il paradiso: si è discusso un progetto di recupero ambientale, ci sarebbero voluti almeno 2 milioni e mezzo di alberi di 100 specie diverse. Ha cercato risorse in giro per il mondo, Salgado, e ha piantato i suoi alberi: «Siamo arrivati a due milioni di piante e abbiamo trecento specie diverse». Un mondo che respira di nuovo, dove respirano anche gli animali che recuperano il loro habitat. Insomma, si può.
Ma possono 240 fotografie fermare una corsa folle e suicida? In primavera, in contemporanea, la mostra è stata vista a Roma, Londra, Toronto e Rio de Janeiro e ha lasciato un segno: migliaia di persone che andavano per ammirare il grande fotografo e si sono portate dietro l’emozione della Terra. Riparte per il giro del mondo e la prima tappa è Venezia, espressione massima dell’uomo che costruisce “sulla” natura ma cerca di rispettarne gli equilibri. Venezia potrà e dovrà stupirsi dell’incontaminato, ritrovare una chiave anche per la propria esistenza e sopravvivenza. Il lontano da sé diventa in qualche modo il sé, il microcosmo incontra il planetario. Perché, lo dice Salgado, questo è un lavoro di «antropologia planetaria».
Finora aveva fotografato solo uomini e storie di uomini: le rivoluzioni, la fine della manodopera industriale, le migrazioni, i profughi e i rifugiati. In “Genesi” gli unici uomini sono quelli nascosti, invisibili, lontani dal resto della società: le tribù amazzoniche degli Yanomami e dei Cayapò, i Boscimani del Calahari, i Pigmei del Congo, gli Himba del deserto namibico, le tribù disperse nelle foreste della Nuova Guinea. Uomini nella natura, che ne vivono in simbiosi. Dice Salgado: «La concezione moderna secondo cui l’uomo e la natura sono due entità separate è semplicemente assurda. Viviamo in disarmonia con gli elementi costitutivi dell’universo, come se non fossimo noi stessi fatti nello stesso modo».
Ecco, nelle foto di “Genesi” ci sono gli elementi costitutivi dell’universo: in cui riconoscersi e non da guardare estasiati come altro, come un miraggio. Questa è la Terra, anche se quella che calpestiamo è fatta di asfalto e l’inquinamento ci pervade. La grande sorpresa per noi civilizzati, urbanizzati, meccanizzati e soffocati è che queste sono immagini reali, non miraggi.
Il bianco e nero ci obbliga a fare a meno dei colori, forse a inventarceli, ma non sembra nemmeno necessario. «Le foto in bianco e nero» dice Salgado «sono in sé astrazioni». Quella che si definisce maestà della natura diventa grazia e purezza, si insinua irrefrenabile uno scarto verso l’alto. E ognuno di noi può assaporare l’indicibile sensazione di essere il dio che è, creatore e non distruttore, e guardare la “Genesi”.
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