“Sesolòte”, donne lavoratrici nel porto dell’800

Emerge, quasi stridente nella memoria storica luminosa della vecchia Trieste borghese di fine Ottocento, dei suoi caffè e delle sale da ballo, la fotografia di un gruppo di donne in posa elegante, con la testa alta e lo sguardo sicuro. A tradire la natura delle signore, gli abiti logori e l’evidente stanchezza del corpo. Emblema dimenticato dell’imponente proletariato urbano, lavoratrici salariate del porto, erano quelle donne le popolari “sesolòte”, mondatrici di caffè, gomma arabica, pepe, zucchero, cotone, frutta e ogni altro genere di mercanzia sbarcata dalle navi nel grande porto asburgico. Ne hanno parlato ieri Ester Pacor e Mirta Cok in un intervento dal titolo “Lavoratrici del porto tra povertà e riscossa” inserito nel ciclo dei Martedì dell’Arte organizzati in Palazzo Economo, sede della Soprintendenza ai beni storici e artistici. Il loro nome deriva da quello della “sesola”, cucchiaione di legno usato per estrarre dai sacchi le granaglie, e di caratteristico hanno soprattutto il fatto di essere state risucchiate in un oblio spaventoso: pochissimi i documenti storici che ne fanno menzione, spiegano le relatrici, eppure negli ultimi decenni del secolo erano almeno un migliaio le giovani così occupate e su di loro si reggeva la sussistenza di intere famiglie. Sfruttate, sottopagate, sottoposte a un ambiente di lavoro maschile dove abuso e violenza erano all’ordine del giorno, erano tuttavia figure fondamentali e specializzate in quella che era la parcellizzazione del lavoro portuale: «Nei magazzini esse pulivano, depuravano, sceglievano e impacchettavano merci di ogni tipo, il resto del lavoro veniva portato a casa in sacchi pesantissimi per proseguire il lavoro aiutate dai bambini - ha sottolineato Mirta Cok - Erano precise, con mani piccole e una buonissima vista per mondare il caffè, selezionare la frutta buona, pesarla, prepararla per la vendita». Prive di tutele, sono state anche le prime a rivendicare una migliore qualità del lavoro e della vita, aderendo alla sezione femminile della Società Operaia e prendendo parte a scioperi e manifestazioni. Poco più che ragazze, sembra fossero un simbolo di triestinità, famose per la loro “anda”, come si legge nelle poesie di Edoardo Borghi, per il loro fare simpatico, per il canto continuo e la leggerezza: «Erano quasi delle partigiane del lavoro, vista la loro forza di volontà per rispondere a una situazione di miseria estrema», ha commentato Pacor. E in effetti in una situazione di grande crescita demografica e progressivo aumento della povertà e della fame, le sesolote hanno reagito offrendosi per uno dei lavori più sfiancanti e meno remunerativi, ma sufficiente a far fronte alle necessità delle famiglie. Una storia trascurata, la loro, e invece fondamentale nella costruzione della memoria del lavoro e della condizione femminile.
Vanessa Maggi
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