Siamo proprio sulla stessa barca: tutti
Insieme la si affronta, la tempesta, insieme si prova a superarla.

La fiaccolata in ricordo dei due agenti di sabato 5 ottobre
TRIESTE «Siamo tutti sulla stessa barca», anche e soprattutto quando da un mare per definizione tranquillo si alza un’onda improvvisa e imprevedibile, di una violenza inaudita, al di fuori della nostra capacità di ricondurla con la ragione entro i confini del comprensibile.
Le parole di Marina Abramovic per la Barcolana di un anno fa risuonano ancora in una Trieste sgomenta per l’uccisione di due suoi uomini per bene, tra i migliori insieme a molti altri come loro migliori, sotto gli occhi dei compagni di lavoro che hanno evitato alla città il rischio di una strage bloccando in tempo il disgraziato assassino.
Non importa il significato originario di quello slogan, ma il senso che può per esteso assumere oggi: nella tempesta improvvisa e fatale si è insieme, su una barca come in una città. E insieme la si affronta, la tempesta, insieme si prova a superarla. Con la compostezza commossa di una comunità che si è stretta alla Polizia con la forza di un abbraccio sincero, riconoscente. Con il rispetto per ogni sforzo che si sta facendo nelle indagini e nella ricostruzione precisa dei fatti: che porteranno a chiarire non solo la dinamica della tragedia ma anche le eventuali mancanze nel far sì che chi per lavoro è chiamato a proteggere ciascuno di noi sia messo nelle condizioni per farlo, a partire da sé stesso.
Con la volontà di andare avanti: facendo meglio, diventando migliori, insieme. La ferita inferta a Trieste da quei colpi di pistola, lo strappo nella sua vela spesso incerta di suo tra il ripiegare sul passato e il puntare verso il futuro, è profonda e sanguinerà a lungo: perché quelle due pistole in mano a un ladro di motorini hanno smascherato una fragilità sottile, quasi inavvertibile, ma molto profonda della nostra barca. Quale vento seguire in queste condizioni, con questa sofferenza addosso e dentro? Non crediamo proprio quello della polemica surreale, immediatamente agitata da qualcuno, sulla provenienza dell’assassino, identica a quella del fratello che aveva fatto in modo lui ammettesse il furto e regolasse i suoi conti con la giustizia (quanti “italiani italiani” lo fanno, lo farebbero, lo hanno fatto? Non importa, non deve essere questo il tema). E neppure aggrapparsi al mantra della certezza inesistente della pena che nel nostro frastornato Paese alimenta, è vero, la sfrontatezza del crimine: quello micro, sbandato e balordo, che ci intimorisce nel quotidiano, esattamente come quello macro, in doppiopetto e dalle buone maniere, che mina le fondamenta del nostro convivere civile, la costruzione di un futuro migliore, senza che ce ne rendiamo, ancora e oggi e qui, davvero conto.
Se si vuole aver cura, ognuno per la sua parte, dello scafo che si timona o su cui si sale, del luogo grande o piccolo in cui ci si trova, si vive, che si spera di rafforzare o trasformare, servono un’attenzione e una pazienza non comuni: i tempi e la fatica non sono quelli dello sfogo qualunquista e amareggiato, né quelli della cattura di un consenso o di un’accondiscendenza immediati. Da tempo invochiamo o predichiamo sicurezze varie, additiamo nemici incombenti o presenti, evochiamo pericoli alla nostra incolumità o al nostro quieto e distratto vivere. Nel mentre, non ci accorgiamo delle fragilità già presenti, dei fantasmi silenziosi o straniti che ci sfiorano mentre ci voltiamo dall’altra parte. Delle fessure nella chiglia: delle ombre che camminano a fianco a noi. Perse, da noi, nel loro disagio (di qualunque tipo), nella loro difficoltà che noi consideriamo marginale rispetto alle nostre, quelle sì importantissime, per noi... E che invece, le loro, all’improvviso possono esplodere, come i proiettili di un caricatore di una pistola custodita in una fondina sdrucita.
Difenderci, non da chi porta questa ruggine su di sé ma dalle alghe della nostra indifferenza che le copre, richiede uno sforzo quotidiano, quasi mostruoso per le nostre abitudini. E significa anche investire, nel mantenimento e nell’affinamento di ogni servizio e strumento di prevenzione invece di vagheggiarne o favorirne un progressivo indebolimento (sorte simile a quella delle condizioni di sicurezza garantite a chi fa qualunque lavoro, poliziotti compresi e in prima linea). Significa accettare e considerare l’imperfezione propria e della comunità di cui si fa parte, fare lo sforzo di coltivare una crescita collettiva nella coscienza dei propri limiti. Senza attribuirne la responsabilità ad altri. Come quando si va per mare, dove le folate né l’onda hanno colpe: c’è solo da prevederle, conoscerle, interpretarle. Affrontarle. Nasconderle non è possibile, chiamarle con altro nome è inutile. —
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