«Sparano sul tricolore in Prefettura»

La testimonianza inedita di Luigi Cividin, esponente del Cln, che era assieme a Don Marzari
Ecco come appariva il palazzo del Lloyd triestino in piazza Unità dopo i combattimenti del primo maggio
Ecco come appariva il palazzo del Lloyd triestino in piazza Unità dopo i combattimenti del primo maggio

Pubblichiamo di seguito la tetsimonianza inedita sul primo maggio 1945 di Luigi Cividin, esponente democratico cristiano nel Comitato di liberazione nazionale a Muggia. Il documento integrale è conservato nell'archivio dell'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia.

di LUIGI CIVIDIN

Silenzio profondo! (…) Raggiungiamo per scorciatoie via dell'Istria. Alle finestre di molte case, non tricolori italiani con la stella rossa, come a Muggia, pavesata a festa da cima a fondo, ma semplici bandiere rosse, senza sovrapposizioni di sorta. Non so rendermi ragione perché la stella rossa non abbia raggiunto anche quella zona dei cantieri e lo faccio notare a Giordano Pacco. Mi guarda sorridendo, non risponde e lascia morire il discorso. Dopo campo S. Giacomo, i primi capannelli di curiosi, direi di coraggiosi, perché nell'aria incominciano, di quando in quando, a sibilare le pallottole che passano alte sulle nostre teste. (…)

Attraversiamo solleciti piazza dell'Unità, lungo il lato del Caffè degli specchi. Anche qui il sibilo di qualche pallottola che fende l'aria ed eccoci in Prefettura, attraverso il portone socchiuso. Al pianoterra, nel corridoio semibuio, verso il cortile, un vero bivacco: un andirivieni di una cinquantina di persone che si urta, che si sposta, che parla animatamente, che commenta l'arrivo dei primi nuclei di soldati jugoslavi, che vorrebbe conoscere la realtà delle cose, che attende ansiosamente la fine del dramma creato dalla guerra, che vorrebbe in una parola che tutto fosse finito.(…) Fedele come ad un appuntamento che ci fossimo dati in questo ambiente, incontro Mocchi che con oggi riprende ad essere don Marzari, reduce dal Coroneo, al quale i rischi pericolosissimi della Resistenza condivisi con lui, mi avevano a lui tanto legato. E ci abbracciamo affettuosamente, senza profferire parola, comprimendole lacrime che vorrebbero uscire dagli occhi. D'altronde non è tempo da perdere per tali sentimenti e riprendiamo il nostro posto di lotta. (…)

Da questo momento la sparatoria incalza pesante e molti dei presenti cercano di cavarsela alla meglio, finché si è in tempo. (…) Nel primo pomeriggio la Prefettura rimane quasi vuota: sono presenti meno di una decina di persone. (…) Don Marzari è al suo posto, in qualità, ancora una volta, di presidente del Cln. È pallido, sofferente, emaciato. Lo consiglio di riposarsi un po' in una stanza appartata: sente la pesante, gravissima responsabilità dell'ora che incombe.

Appare proprio in questo momento una donna dall'aspetto giovanile in divisa militare. È alta, robusta, porta la bustina con la stella rossa sui capelli biondi e al cinturone la pistola. Direi che avesse il grado di tenente. Si avvicina a don Marzari e a me. Si mette sugli attenti, battendo i tacchi, con aria di comando più che di presentazione: «In nome del Comitato popolare d'insurrezione, unico e legittimo organo rappresentativo di Trieste, chiedo che il Cln consegni i suoi poteri; che i suoi rappresentanti abbandonino il palazzo del governo; che il tricolore d'Italia venga ammainato. Qualsiasi presa di posizione del Cln è inutile, dopo che le truppe di Tito hanno occupato e liberato Trieste». Questa la conclusione.

Don Marzari risponde, tuonando: «Passate sopra i nostri corpi ma a voi non cederemo i poteri; li consegneremo soltanto ai rappresentanti delle forze militari alleate che qui attendiamo, noi rappresentanti del Cln». Io ribatto tali concetti, con più forza ancora, mentre quel milite in gonnella, inviato da elementi faziosi, aizzati dal Comitato popolare sloveno, mi fissa negli occhi con ferocia belluina.

Il colloquio assume toni drammatici ed infine l'ambasciatrice se ne va impavida, così com'era venuta. Trilla il campanello del telefono. Una voce chiede…delle casse da morto. Don Marzari ed io ci guardiamo perplessi: non c'è da stare allegri!

Sono le ore sedici. Il grande portone di ferro viene ancora una volta sospinto e questa volta s'infila dentro un vigile del fuoco con al cinturone la mannaia e sulla testa l'elmo. Senza troppe cerimonie, egli chiede, in forma perentoria, che venga immediatamente tolta dal balcone della Prefettura la bandiera d'Italia che non ha più ragione di essere. Poi lo ordina in forma aspra gridando. Don Marzari s'irrigidisce e alza sdegnosamente il braccio indicando al vigile del fuoco del comune di Trieste la porta… «Esca» grido io «lei è indegno di essere un dipendente del comune di Trieste». Il vigile se ne va bestemmiando e ingiuriando, proferendo minacce contro i reazionari fascisti. S'è fatto orami il vuoto: siamo rimasti in tre soli, se si conta il ragionier Libuti, il benemerito funzionario della Prefettura.

Il telefono suona ancora una volta e sarà l'ultima. Qualcuno, dal municipio, si preoccupa della nostra vita. «Abbandonate subito la Prefettura, il vostro sacrificio è inutile… i tedeschi stanno accostando le motozattere al molo Audace! Non c'è più nulla da fare. Volete farvi ammazzare?»

«Vogliamo difendere il tricolore d'Italia» rispondo io «ed usciremo da qui al tramonto, dopo che lo avremo ammainato». «Da patrioti» aggiunge don Marzari, avvicinando istintivamente la bocca al telefono. Il palazzo trema fino alle fondamenta, in un continuo tambureggiare di scoppi: sembra un bombardamento a tappeto. Salgo le scale, entro carponi nel salone che dà sul balcone centrale per spiare un po' sulla piazza, e verso la motozattera da cui sembra giungere il finimondo.

«Non c'è più la bandiera» grido facendo di ritorno in un fiato le scale. «Non c'è più la bandiera» grido a don Marzari e al ragionier Libuti che se ne stanno riparati in un angolo presso la porta, al pianterreno. Il vigile del fuoco aveva recisa l'asta, a colpi di mannaia facendola cadere nella piazza insieme ai colori d'Italia. Mi precipito con Libuti per i vari piani della Prefettura e finalmente riusciamo a mettere mani a un tricolore…

È necessario un ultimo sforzo per tutti e tre, estremamente impegnativo: far sventolare al balcone una nuova bandiera per far conoscere, ancora una volta al mondo, che qui è Italia. Mani a quattro, scivoliamo sul tappeto rosso del salone: mi allungo pian piano sul lastricato dell'ampio balcone, butto con una certa difficoltà il tricolore, a mo' di drappo, oltre il davanzale del colonnato e riesco ad assicurarne la prima legatura intorno ad una colonnina di sostegno. Una sparatoria indiavolata giunge da via dell'Orologio contro la bandiera e colpisce gli archi di sostegno del balcone. Istintivamente vorrei tanto rimpicciolirmi da farmi un'ombra. Don Marzari accovacciato sulla soglia della vetrata di centro, mi grida ossessionato di tirarmi dentro. Sento le schegge delle pietre proiettate in aria. Teniamo ambedue il fiato sospeso! La cordicella mi trema nelle mani e stento ad annodarla. Sento le pietre sbrecciarsi. Alcuni secondi ancora, che sembrano eterni, il tricolore è sciolto. Don Marzari mi afferra come un pazzo i piedi e mi tira dentro. Il tappeto rosso luccica nella penombra di frammenti di cristallo dei lampadari e del grande specchio, colpiti dalla fucileria. Il momento di sgomento è passato. Siamo esausti, sfiniti. È il tramonto: sta per calare la notte. «Ora possiamo andarcene, abbiamo compiuto il nostro dovere», esclama don Marzari stringendomi convulsamente le mani. Cerchiamo di telefonare al municipio; la linea non funziona più e così la luce. Avanziamo annaspando nel buio per raggiungere l'uscita di via S. Carlo; quella che dà sulla piazza potrebbe essere la nostra morte. Sostiamo nel rettangolo del portone, ritti in piedi, come tre ombre. I riflettori delle motozattere, attraccate lungo il molo Audace sventagliano le rive e la lama di luce investe ritmicamente anche via S. Carlo. La fucileria continua a crepitare su in alto, nelle varie direzioni della città. Dobbiamo deciderci a guadagnare piazza Verdi, senza essere scorti. Siamo tutti e tre titubanti. «Chi è il più anziano di noi?» chiedo. «Io» sbotta secco Libuti. «E tu sei un prete» soggiungo di scatto, rivolgendomi a don Marzari. «A me dunque, per primo; a me la sorte…». Ed in men che non si dica, con un salto sono sul lato opposto della strada e in due salti, a piazza Verdi, seguito dai due amici di avventura. La luce dei riflettori continua il suo carosello sotto il cielo buio, filtrando l'acqua che scende giù copiosa. Sono le ore venti. (...)

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