Tiziano pittore dei “big”

Alle Scuderie del Quirinale grandioso omaggio al maestro che fotografava sulla tela papi e madonne profane
Di Lucia Cosmetico

di Lucia Cosmetico

ROMA

I. n una Roma ancora in festa per l’elezione di Papa Francesco, che compare in formato benedicente sui manifesti nelle strade, è il volto di un altro papa a dare il benvenuto ai visitatori della grande mostra dedicata a Tiziano, inaugurata alle Scuderie del Quirinale lo scorso 5 marzo. Era il 1543 quando Paolo III Farnese, all'età di 75 anni, venne ritratto dal pittore veneto diventato ormai celebre tra le corti italiane ed europee, ma invecchiare nel ’500 doveva essere decisamente più faticoso. Soprattutto per un papa come Paolo III, che oltre ai pensieri per figli e nipoti si sobbarcò la fatica di organizzare il Concilio di Trento, risposta cattolica alla Riforma protestante di Lutero e Calvino. Un peso della storia che sembra gravare sulle spalle dell’anziano pontefice nel ritratto che gli fece Tiziano: capo lievemente chino, volto rugoso, una lunga barba bianca ma gli occhi ancora vispi e scintillanti, cosicché - racconta Vasari nelle sue “Vite” - chi vedeva il dipinto eposto lo salutava come se fosse il papa in carne e ossa.

All’epoca Tiziano era già all’apice della sua carriera. Farsi ritrarre da lui voleva dire essere qualcuno. Essere immortali. Anche da bambini. Come capitò al piccolo Ranuccio Farnese, nipote del papa e già “priore” all'età di 10 anni. Nell’espressione del volto di questo fanciullo, c’è tutta la sorpresa e l’orgoglio del ritrovarsi precocemente addosso un ruolo da grande. Non è un ragazzino che vuole scimmiottare gli adulti, come certi bambini televisivi, ma un bambino che in fondo preferirebbe andare a giocare a tirare le coda alle lucertole.

Verità esteriore e interiore, d’altronde, vanno a braccetto in queste fotografie col pennello. Come disse nell’800 un altro pittore, Eugène Delacroix, «in Tiziano le qualità pittoriche sono portate al punto massimo: quel che dipinge è dipinto, gli occhi guardano e sono animati dal fuoco della vita».

La sua arte «contiene la grandezza e terribilità di Michelangelo, la piacevolezza e la venustà di Raffaello ed il colorito proprio della natura», diceva invece Ludovico Dolce, suo grande estimatore dell'epoca le cui frasi sono spesso riportate in questa pregevole esposizione monografica, pensata come chiusura di un ciclo decennale iniziato con Antonello da Messina e proseguito poi con Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto e Jacopo Tintoretto. Fino ad approdare a Tiziano Vecellio, il pittore di origine cadorina (era nato a Pieve di Cadore intorno al 1490) che le sue Dolomiti se le portò dietro in tutte le sue peregrinazioni d’artista: da Venezia a Roma, dove giunse anche per cercare “prebende” per quello sfaccendato di suo figlio Pomponio, avviato alla carriera ecclesiastica ma incapace di camminare con le sole sue gambe. Chi ha in mente le Dolomiti al tramonto, non faticherà a riconoscerle sullo sfondo della “Crocifissione” dell’Escorial: oscura, tenebrosa, squarciata dai lampi e illuminata da una falce di luna.

Tiziano inizia a diventare famoso come autore di grandiose pale d'altare per le chiese della Serenissima. Già in queste opere la lezione dei maestri Giorgione e Bellini si trasfigura in qualcosa di nuovo, per poi giungere, nella maturità, ad invenzioni espressive audaci che non vennero particolarmente gradite dai contemporanei, come quell’Annunciazione concitata e modernissima (Chiesa di San Salvador, Venezia) che sembra quasi in anticipo di tre secoli sulla storia dell’arte: qui la colomba dello Spirito Santo è come se scendesse in picchiata sulla Madonna, portando con sè uno sfolgorìo di luce che illumina un arcangelo Gabriele particolarmente scarmigliato e con ali da uccello vero più che da angelo. Molto più sobria e classica l’Annunciazione dipinta 30 anni prima per la Scuola Grande di San Rocco, dove in basso compare la pernice, simbolo di quella “fecondazione aerea” che avrebbe permesso alla Madonna di diventare madre del Figlio di Dio attraverso il soffio dello Spirito.

Nella florida Venezia dell’epoca sono attivi il cardinal Pietro Bembo, autore delle “Prose della volgar lingua”, e il tipografo Aldo Manuzio. L’Italia è nel pieno del suo Rinascimento: nel 1532 viene pubblicato l’Orlando Furioso dell'Ariosto, pochi anni dopo Michelangelo inizierà a dipingere il Giudizio universale nella Cappella Sistina, mentre nel 1528 esce il manuale del bravo cortigiano di Baldassarre Castiglione. Ed è proprio in questo testo che si trova la parola che meglio definisce una caratteristica dei ritratti di Tiziano: la “sprezzatura”, ovvero quell’aria sicura di sè e distaccata che hanno i tanti personaggi che chiesero al grande pittore di farsi ritrarre dal vero, da un anonimo “Uomo con il guanto”, giovane dal volto inquieto che ricorda tanto quelli del nostro tempo, fino al grande Carlo V, l’imperatore di quell'impero dove non tramonta mai il sole che volle Tiziano come suo ritrattista ufficiale. E l’artista, per dargli un’aria che fosse sì ufficiale ma anche umana, gli mise vicino per l’occasione un bel cagnone adorante che occupa una gran massa del quadro come fosse anche lui un attributo del potere imperiale.

Se gli uomini ritratti sono per la gran parte abbigliati di nero, soltanto il volto illuminato dalla luce, ben diversa atmosfera si respira nelle tele che omaggiano la bellezza femminile: la “Maddalena” pentita e sensuale al tempo stesso non ha bisogno di abiti, una cascata di capelli biondo-ramati a coprirle le spalle, mentre riccamente adornata di un abito blu damascato è “La Bella”, vera icona di ciò che per Tiziano e gli uomini dell’epoca doveva essere la donna: «fronte alta, spaziosa, ciglia sottili, dai peli corti e molli, come di fine seta; guance bianche rosate in cima, gola tonda e candida, senza una macchia, spalle larghe e soprattutto un petto bianco». Magari soltanto intuito da una scollatura pudica sulla camiciola bianca, come in quella “Flora” che viaggia anche sugli autobus come sponsor ufficiale della mostra.

Che tipo fosse Tiziano, è proprio lui a rivelarcelo negli autoritratti: autobiografie in terza persona, ha scritto uno studioso, perché il volto dell’artista non guarda mai lo spettatore ma è sempre di profilo. Forse un modo per evitare l’autocelebrazione e mostrare, soprattutto in vecchiaia, una “sprezzatura” di quegli onori mondani cui nella sua vita aveva sempre aspirato.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Argomenti:artemostra

Riproduzione riservata © Il Piccolo