Uno schermo in nero con il maggiordomo e lo schiavo violinista

di Beatrice Fiorentino
Nell’America di Obama, Hollywood guarda alla comunità afro-americana per riflettere sul passato della nazione e sulle dure battaglie che hanno determinato, dopo quasi due secoli di lotte, la conquista dei diritti civili da parte dei neri. L’argomento è sempre vivo e parole come “discriminazione” e “razzismo” non possono dirsi del tutto superate se si pensa che neanche un anno fa il vigilante George Zimmerman, tutt’oggi impunito, freddava con un colpo di pistola un ragazzino disarmato di 17 anni di nome Trayvon Martin.
Così, a un anno esatto dall’uscita di “Lincoln” e “Django”, e in attesa di conoscere la data di distribuzione del biopic “Mandela: Long walk to freedom”, si torna a parlare di questi temi grazie a diversi film destinati, ciascuno a suo modo, a lasciare un segno e probabilmente a conquistare più di una statuetta durante la notte degli Oscar. Il primo in ordine di arrivo, “The Butler – Un maggiordomo alla casa Bianca”, inaugurerà la stagione cinematografica del nuovo anno, raggiungendo le sale italiane il 1 gennaio. Il film del regista di colore Lee Daniels ha già incassato 116 milioni di dollari negli Usa rispetto a un budget di appena 30, strappando lacrime di commozione al presidente e alle platee statunitensi con la storia del maggiordomo Cecil Gaines, ispirata alla vita vera di Eugene Allen, che servì ben sette presidenti alla Casa Bianca dal 1957 al 1986, da Eisenhower a Ronald Reagan, e le cui vicende sono state rese note da un articolo pubblicato nel 2008 sul Washington Post. “La storia di un uomo, la storia di un paese” recita il trailer, perché attraverso la vita di Gaines e della sua famiglia, il film attraversa in maniera puntuale, quasi didascalica, tutte le tappe che hanno consentito alla comunità afro di raggiungere la parità dei diritti.
Accanto a Forest Whitaker nel ruolo del protagonista, c’è la star televisiva Oprah Winfrey che interpreta con intensità la moglie trascurata e alcolizzata di Gaines, assieme a un cast stellare che accoglie i nomi di Robin Williams, John Cusack, James Marsden, Alan Rickman, Jane Fonda, Liev Schreiber, Mariah Carey e Lenny Kravitz nei panni di presidenti, first ladies e altri ruoli minori. Sia Whitaker che la Winfrey si dichiarano ottimisti sui temi che Daniels solleva: «C’è molto da fare, ma molto è stato fatto», affermava l’attore pochi giorni fa, mentre Oprah incalzava: «Nella prima immagine del film c’è un ragazzino schiavo, nell’ultima c’è colui che oggi guida la nazione. Tutto questo è successo nell’arco della vita di un essere umano».
Non c’è dubbio che anche nel cinema di strada se ne sia fatta rispetto alle origini, quando David W. Griffith raccontava nel 1915 la “Nascita di una nazione” utilizzando attori bianchi con le facce dipinte di nero per i personaggi di colore, reinterpretando particolari ed eventi della guerra di secessione che offrivano un quadro storico quanto mai distorto e fazioso che gli valsero pesanti accuse di razzismo difficilmente contestabili. Anche la storia del cinema, infatti, offre la testimonianza di una visione “politically uncorrect” radicata almeno fino alla metà degli anni ’60, periodo spartiacque in cui le manifestazioni del Movimento per i diritti civili sotto la guida di Martin Luther King portarono a una progressiva presa di coscienza della parità tra gli uomini. Precedentemente, quando non erano ritratti come “Bucks”, ignoranti, zotici e brutali stupratori di virginali fanciulle bianche, i neri erano quasi sempre rappresentati attraverso immagini stereotipate di Toms (dallo Zio Tom) e Mammies, basati sull’idea sottilmente discriminatoria del “buon negro”, servile servitore del padrone bianco; poi c’erano i Coons (i neri buffoni delle commedie slapstick) o i Mulattoes, ovvero figure tragiche costrette a portare il pesante fardello di un sangue “impuro”. A seguito dell’entrata degli States nella seconda Guerra Mondiale si ravvisa una prima evoluzione che mette l’uomo di colore in una diversa luce, “accettato” come portatore di valori positivi, sempre tuttavia limitati e in ogni caso a favore del protagonista bianco. Del 1964 “Black like me” di Carl Lerner, in cui un uomo bianco si traveste per cercare di comprendere cosa significa essere nero, e del 1967 il celebre e politicamente corretto al limite dell’ipocrisia “Indovina chi viene a cena?” di Stanley Kramer, citato anche in “The Butler” come esempio di ciò che i bianchi immaginano/tollerano che possa essere un nero, seppur apprezzabile per aver introdotto per la prima volta al cinema il tema dell’amore interraziale. Risale invece agli anni ’70 l’avvento della “Blaxploitation” e di quei film di serie b (titoli come “Shaft” o “Foxy Brown”, ripresi successivamente anche da Tarantino in “Jackie Brown”), legati al movimento Black Panther e principalmente rivolti a un pubblico afroamericano. Bisognerà attendere la serie TV “Radici”, che nel 1977 ha commosso le famiglie di tutto il mondo raccontando l’odissea di Kunta Kinte, perché l’America sia compiutamente capace di riconoscere la condizione di schiavitù e di oppressione subita dai neri nella sua storia.
Oggi, mentre è atteso per fine gennaio “Fruitvale Station” di Ryan Coogler, incentrato sul fatto di cronaca dell’assassinio di un ragazzo di colore dopo un confronto con la polizia di Oakland, e mentre Spike Lee, regista “black” per antonomasia, si discosta da queste tematiche per realizzare il remake del coreano “Old Boy”, arriva (il 20 febbraio) l’attesissimo “12 Years a Slave” del londinese Steve McQueen, che al suo terzo film non corre più il rischio di essere confuso con l’omonimo attore. Passato con esiti eccellenti dalla videoarte al mainstream, il regista inglese, tra i più talentuosi in circolazione, aggiunge un ulteriore tassello al suo percorso artistico che fa della fisicità e del concetto di “schiavitù” uno dei tratti distintivi del suo cinema. Dopo “Hunger” e “Shame”, McQueen torna con successo sugli schermi con un film di rara potenza che non risparmia sofferenze nel mostrarci i soprusi subiti da Solomon Northup, uomo libero e talentuoso violinista di colore, sottratto con l’inganno alla famiglia nel 1841, spogliato di ogni diritto e venduto come schiavo in Louisiana. Il suo rientro a casa e la libertà riconquistata dopo dodici anni, pur non lenendo il dolore, porta con sé il sapore dolce della Giustizia. Una giustizia reclamata per secoli a cui, con lento incedere, ci si avvicina passo dopo passo, in quella che, nonostante tutti i suoi limiti, resta innegabilmente la più grande democrazia del mondo. Il paese in cui tutto è ancora possibile e “avere un sogno” è poterlo realizzare. La terra dove -per dirla alla Bill De Blasio, multietnico neo-sindaco della città di N.Y.C.- si può ancora proclamare che «nessuno dovrà essere lasciato indietro».
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