Addio Laura Antonelli la bellissima di Pola sogno proibito d’Italia

Trovata morta in casa a Ladispoli, aveva 74 anni Dopo i film di successo un malinconico tramonto
Di Paolo Lughi

ROMA. È morta a Ladispoli l'attrice Laura Antonelli. A dare l'allarme ieri mattina è stata la badante che l'ha trovata per terra in casa. Gli operatori del 118 non hanno potuto fare altro che constatare il decesso per infarto. Laura Antonaz, questo il suo vero nome, era nata a Pola il 28 novembre del 1941. I funerali non si terranno prima di giovedì perché si attende l’arrivo dal Canada del fratello Claudio.

di PAOLO LUGHI

Per capire pienamente il mito di Laura Antonelli, l'indimenticabile star di "Malizia" (1973), nata a Pola nel 1941, bisognerebbe innanzitutto essere stati maschi diciottenni a metà anni ’70, quando questa attrice dallo sguardo dolce e dal corpo esplosivo divenne per i giovani italiani post-sessantottini il simbolo della rivoluzione sessuale.

Solo chi era allora adolescente può, infatti, ricordare l’entità del culto per questa interprete solare, duttile e sensibile, bellissima, con una particolare ritrosia naturale che sembra propria di queste parti, e che era tipica anche della conterranea star internazionale Alida Valli. All'apice della sua carriera, la Antonelli è stata l'unica vera diva italiana, con un'assenza di rivali che prima e dopo raramente si è verificata in modo così deciso nell'Olimpo ricco e variegato delle bellezze cinematografiche nazionali. Volto da ragazzina moderna, corpo giunonico anni '50, Laura è stata un monumento della commedia erotica all'italiana, il massimo oggetto del desiderio dopo il Boom e fino all'arrivo sugli schermi di Ornella Muti (seconda metà anni '70).

In apparenza “Casta e pura”, “L’innocente” sdoganò Laura come fosse un “Peccato veniale”, anche se con “Malizia”, languida e insieme seducente (citando alcuni suoi celeberrimi titoli), quella libertà di costume che dopo il 1968 stava velocemente contagiando anche il nostro Paese. Ma lo stracult di Salvatore Samperi “Malizia”, record assoluto d’incassi dell’anno, in cui Laura è la servetta Angela che fa perdere la testa a tutta la patriarcale famiglia siciliana dove lavora, non fu in realtà che un tassello (e per merito suo non il primo) nel nuovo immaginario erotico dell’italiano medio dell’epoca.

Adolescenza a Napoli dopo l'esodo istriano, insegnante di educazione fisica, Laura avrebbe potuto raggiungere la popolarità già nel 1969, quando girò una storia al limite dell'hardcore, "Venere in pelliccia". Ma il film, bloccato dalla censura, sarebbe uscito con il titolo "Le malizie di Venere" solo sei anni dopo, sull'onda dei trionfi successivi. Subito dopo divennero invece già mitici, grazie al passaparola, altri due titoli che esaltavano la straordinaria cinegenia, e insieme la sfrontata, modernissima disinvoltura nell’esibire le sue forme, dell’Antonelli, prima significativa “antistar” femminile di quel decennio inquieto e controverso. Si trattava delle due commedie libertine “Trappola per un lupo” (1972) di Claude Chabrol con Jean-Paul Belmondo, e “Il merlo maschio” (1971) di Pasquale Festa Campanile, apice del nostrano successo “machista” di Lando Buzzanca.

Ma la bellezza insieme placida, prorompente e rivoluzionaria di Laura Antonelli andò presto oltre ogni effimero trionfo di filoni e di mode. Il suo segreto fu quello di dar meravigliosamente corpo e inedita visibilità a un ideale di sensualità allo stesso tempo tradizionale e trasgressivo, classico e moderno, nazionale e internazionale. Si trattava di un felice e misterioso incantesimo per cui le nostre invidiate maggiorate anni ’50 e ’60 (Mangano, Lollobrigida, Loren), improvvisamente e a sorpresa si erano reincarnate e concentrate con la Antonelli in un nuovo, più attuale ideale femminino, che si apriva a nuovi costumi senza perdere la proverbiale, originaria grande bellezza.

Di tutta questa chiassosa e casereccia rivoluzione erotica, il regista Salvatore Samperi fu il geniale, anche se in parte inconsapevole, sacerdote. Regista padovano bonariamente e confusamente contestatore, aveva già a suo modo combattuto i vecchi moralismi e cantato i nuovi assetti sociali e di costume in titoli insieme coraggiosi e furbi (e subito popolari) quali “Grazie zia” (1968), “Uccidete il vitello grasso e arrostitelo” (1970) e “Beati i ricchi” (1972).

La consacrazione dell’Antonelli in "Malizia", pellicola prototipo di decine di commedie erotiche a venire, apriva le porte anche a un filone italiano più libero sul fronte del sesso di quelli precedenti (mondo-di-notte, decamerotico). E il sesso era rappresentato innanzitutto da lei, Laura, con le sue forme in primo piano, gli occhi grandi, tranquilli e il viso da ingenua, l'aria così italiana insieme dolce e carnale, così "raggiungibile" con le calze e i capelli mai a posto. Con lei si cessava di sognare l'impossibile, ci si accorgeva della ragazza della porta accanto, con l'abituccio e le ciabatte. Quella scena con lei sulla scala, con l'espressione inconsapevole del movimento della gonna, rimase stampato nell'immaginario erotico del maschio italiano. Fu la prima delle dive "che si spogliavano". Portava molta biancheria intima, la portava bene, se la toglieva anche meglio. In questo, la Antonelli seguiva curiosamente l’esempio di altre bellezze istriane “di frontiera”, come l’altra polesana Susy Andersen (alias Maria Antonietta Golgi, star de “I tre volti della paura” di Mario Bava), e la particolarmente disinibita rovignese Femi Benussi (“La mala ordina” di Fernando di Leo).

Solo dopo “Malizia” (e l’attesissimo al’epoca sequel non ufficiale “Peccato veniale”, sempre di Samperi), arrivarono a imporsi sugli schermi e nei sogni degli italiani Edwige Fenech e Barbara Bouchet (che oltretutto erano straniere), Gloria Guida ed Eleonora Giorgi (italiane, ma che sembravano straniere), Stefania Sandrelli e Ornella Muti (finalmente italiane tout-court, ma ben più restie a spogliarsi). Per Laura Antonelli, massimo simbolo sexy nazionale per oltre un decennio, ci furono 42 pellicole in tutto con varie consacrazioni d’autore, da Dino Risi (“Sessomatto”, 1973), a Luigi Comencini (“Mio dio, come sono caduta in basso!”, 1974), fino al grande Luchino Visconti (”L’innocente”, 1976). Tutto ciò fino al 1991, quando Laura gira l’ultimo suo film (“Malizia 2000”, ancora di Samperi) e quando comincia la sua disavventura giudiziaria, condannata a tre anni e mezzo per detenzione di stupefacenti, ma assolta in appello nel 2000. In seguito, affetta da una grave forma di depressione e abbandonata da tutti, entra ed esce dagli ospedali fino all'appello del 2010 dell'amico Lino Banfi, che chiede per lei l’applicazione della legge Bacchelli.

Lo scrittore Giuseppe Pontiggia scrisse, a proposito del mito della Antonelli, che l'attrice basava il suo fascino sulla combinazione di aspetti inconciliabili, richiamando la figura retorica (prediletta dal Barocco) dell'ossimoro, attingendo per lei a piene mani alla fusione dei contrari: «Impudiciza disarmata, malizia innocente, limpidezza impura, la sua è una sensualità che si svela come passività attiva o come passiva attività. L'accostamento di questi aspetti è comunque più eccitante che ciascuno di loro preso separatamente. L'identità viene da lei serenamente elusa con lo scambio delle parti: la bambina che diventa madre e viceversa, l'artificio che diventa candore e il candore artificio».

Sull'onda del clamore sollevato nel 2010 da Lino Banfi, la Antonelli chiese soltanto di essere dimenticata. È stato allora, e siamo sicuri che sarà sempre, impossibile.

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