Magris incontra Sokurov, il senso del tempo fra Europa e Russia

Al Verdi di Gorizia lo scrittore e germanista e il regista russo affiancati in dittico in “Intelligenze di confine”, serata organizzata da Elisabetta Sgarbi per GO!2025

Giovanni Tomasin
Aleksandr Sokurov, Elisabetta Sgarbi, Claudio Magris, Aliona Shumakova
Aleksandr Sokurov, Elisabetta Sgarbi, Claudio Magris, Aliona Shumakova

L’Europa, la Russia. Qualcosa nel registro del tragico ha aleggiato sul teatro Verdi di Gorizia mercoledì, durante l’immensa serata che Milanesiana ha organizzato per la Capitale della Cultura con Nova Gorica GO2025!, in cui Elisabetta Sgarbi ha affiancato in dittico lo scrittore di Trieste Claudio Magris e il regista russo Aleksandr Sokurov. Una serata che sarebbe esercizio stolto leggere alla lente della geopolitica, giacché le linee di tensione del pensiero – Sokurov direbbe «dello spirito» – non corrono sui fronti militari. Cosa va, cosa resta, nel nostro presente? Due sguardi ci sono stati offerti, dal Novecento sull’oggi. Da Trieste, dalla Russia.

La serata ha significato la tappa goriziana della manifestazione nata nel 2000 sotto gli auspici di Umberto Eco e organizzata da Elisabetta Sgarbi, già insignita a Gorizia del premio Amidei nel 2024. Dopo i saluti delle autorità, Sgarbi illustra il tema di quest’anno – Intelligenze – presentando gli ospiti di questa tappa mitteleuropea del festival, «due grandi europei».

Magris sale sul palco con l’aura sobria del patriarca. Il custode dell’ultima grande stagione culturale della borghesia europea, dell’età della crisi, porta lo sguardo su un presente in cui anche le figure grandi e terribili dei mondi di ieri sono dimenticate. Legge al pubblico una selezione di pagine dal libro scritto a quattro mani con lo scrittore Paolo Di Paolo, “Inventarsi una vita. Un dialogo”, edito da La nave di Teseo.

«Se per secoli il mondo non è mutato o solo impercettibilmente, se in altre epoche il mutamento è stato rapido e vertiginoso, ma pur sempre abbracciabile, comprensibile, affrontabile nel corso di una vita, ora si ha l’impressione di essere quasi di un’altra specie. Le persone anziane oggi hanno l’impressione di trovarsi in un altro pianeta in cui vigono altre leggi, quasi leggi fisiche, che fanno sentire spaesati».

In questo «altro pianeta» le nuove generazioni – «per la prima volta, o meglio da molto tempo» – stanno peggio dei loro padri. Nato nel 1939, Magris ha terminato gli studi affacciandosi al mondo del lavoro negli «anni della rinascita, dello sviluppo turbinoso e sanguigno del paese»: «Sono cresciuto in un’epoca in cui le cose che sono capace di fare e il mio modo di fare potevano, prescindendo dal mio caso specifico, essere apprezzati. Se oggi avessi vent’anni le mie caratteristiche avrebbero molta più difficoltà a trovare posto».

La sua «radicale estraneità al mondo digitale», registra Magris, «rende intorno a me oggi il mondo incomprensibile, pieno di agguati e inganni, fantomatico». A dare un aiuto nello spaesamento viene “Apocalittici e integrati” – «il libro di Umberto Eco che amo di più» -: «Un tentativo di esorcizzare i pericoli di deragliamento della mente, il maniacale e angoscioso rifiuto, e l’insensato e autodistruttivo amen a tutto ciò che avviene, come se ciò che avviene dopo qualche cosa d’altro dovesse essere necessariamente migliore».

Nell’accelerazione del presente le generazioni stesse durano meno, non più 25 anni ma una decade, e con esse si spezza la memoria: «Così si perde ogni autentico legame. È cambiato il senso della contemporaneità, di ciò che ci è contemporaneo, perché tendiamo a sentirlo subito come già passato». Per i figli di Magris la Seconda guerra è qualcosa di vicino pur non avendola vissuta, «come facevano parte del mio mondo la prima guerra mondiale e gli anni immediatamente successivi, attraverso le memorie paterne, in contatto con persone che le avevano vissute sulla propria pelle». Vent’anni fa, ricorda lo scrittore, insegnava al Bard College nella valle dello Hudson, dove «insegnò ed è sepolta Hannah Arendt». Sulla trentina di studenti del suo corso sul romanzo politico del ’900 soltanto «cinque o sei» sapevano chi fosse Stalin: «Stalin ha significato la rivoluzione e il suo folgoramento, la speranza e l’ignominia, un sogno tradotto in mostruosità. Non si possono leggere le vite che sono esistite o che sono state stroncate alla sua ombra come se leggessimo la storia di un regno lontano. Milioni di morti massacrati da lui, che sono morti magari inneggiando a lui e credendo ancora in lui. Ho detto ai ragazzi che non potevamo continuare».

Il teatro avvolge nell’applauso il professore, che si ritira dietro al sipario delle quinte. Prendono posto sul palco Aleksandr Sokurov – passo veloce nonostante il bastone, occhiali fumè - e Aliona Shumakova, intellettuale e traduttrice russa che intervista il regista. La prima domanda verte proprio su Milanesiana, e sul ruolo degli eventi culturali nella vita di un Paese: «Un evento simile è una cosa davvero unica, insolita. Apparentemente ci è permesso di pensare alle cose dell’alta spiritualità quando siamo da soli, quando uno parla a sé stesso, ma non quando siamo in molti. È così che prima il teatro e poi il cinema hanno creato la cultura del nuovo Vecchio Mondo, riunendo tante persone assieme in una sala. Noi saremo diversi una volta usciti dal teatro, non per forza migliori ma diversi. Diciamolo apertamente: ingannare milioni di persone non è difficile. Ingannare una singola persona è molto difficile. Ciò che fa Elisabetta Sgarbi è far sì che noi, singolarmente e insieme, non possiamo più essere ingannati».

La domanda successiva riguarda l’elegia, genere letterario che il regista ha tradotto nel linguaggio del cinema. La questione, spiega Sokurov, riguarda il rapporto fra la sceneggiatura e la sua espressione, e quindi fra parola e immagine. «In principio fu la parola, lo sappiamo tutti, ovunque e sempre la parola rimane il principio. La cultura in cui l’immagine prevale sulla parola è una cultura alla fine». Il regista rivendica quindi la radice letteraria del suo cinema: «Anche per diventare registi bisogna saper scrivere». Dell’elegia, che è letteratura e anche musica, dice Sokurov che è il «ricordo caro di qualcosa che è passato»: «È un sentimento molto slavo. Quindi è andato molto a genio alla letteratura e alla musica russa, all’animo russo». In un cinema pieno di violenza, Sokurov ha voluto contrapporre «una cosa vicina, una cosa cara»: «Nel nostro mondo cristiano facciamo fatica a ricordare le cose buone, perché il nostro subconscio è intriso di sensi di colpa, di senso di tristezza. Non esistono tante elegie nel mondo di oggi».

“L’essere umano ha bisogno di un essere umano” è il titolo del prossimo libro di Sokurov, composto da dialoghi con diversi personaggi della cultura russa, molti dei quali vivono ora all’estero. A questo proposto l’intervistatrice chiede al regista dell’importanza del dialogo: la disposizione al dialogo deriva solitamente alla persona dalla madre, risponde Sokurov, che instilla nel bambino quest’apertura. È grave quando quella disposizione non trova poi riscontro nelle generazioni precedenti: «Ci sono dei popoli in cui le generazioni non hanno dialogo, i vecchi non ascoltano i giovani, e questo male incombe come una nube per secoli sopra di loro, e la religione aggrava la loro condizione».

“Presente” in russo - spiega Shumakova - suona come “vero”, “autentico”, e si richiama al passaggio in cui Magris osserva la scomparsa del contemporaneo, subito passato. Forse anche grazie a ciò che va lost in translation, la risposta di Sokurov entra in risonanza col discorso del germanista: «Mi permetto di non concordare. Il senso della contemporaneità non può cambiare, finché esiste la civiltà umana i sensi sono sempre gli stessi e non ve ne saranno altri. Vivere, dobbiamo vivere perché dobbiamo vivere. Non si può uccidere una persona. Non si possono dire bugie, non si può mentire. Non si possono trattare male i giovani, non si può credere alle assurdità. Questo è ed è sempre stato». Anche i cambiamenti tecnologici che tanto ci confondono, prosegue, si verificano «proprio perché il senso è rimasto quello. Non ho affatto intenzione di entrare nella dottrina religiosa, io parlo di istruzione e sviluppo. Parlo del fatto che i valori umanistici devono prevalere, poiché sono il primo tesoro della nostra civiltà europea e cristiana». Conclude il regista: «Io vorrei ringraziare tutti voi per esser venuti ad ascoltare uno che è venuto da un paese oggi da tutti maledetto, e che sembra così lontano. Vi assicuro che i valori di cui ho parlato prima lì c’erano, ci sono e ci saranno sempre».

Chi ha famigliarità con l’opera del maestro di Arca Russa e della tetralogia del potere saprà ben collocare le sue parole. Il corto e il mediometraggio del regista, “Zhertva vecernjaja / Il sacrificio serale” (1988) e “Elegia dorogi / Elegia della traversata” (2001), proiettati dopo l’intervista, mostrano plasticamente ciò di cui parla. Il campo visivo percorso dalle correnti del pensiero, il tempo che si spariglia negli stati mentali, l’impressione unica di un volto benevolo. Usciamo dal teatro, è vero, diversi. —

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