Al museo del contrabbando di Nova Gorica la galleria dei pericolosi oggetti del desiderio

Tra le merci proibite in Jugoslavia c’era pure “Il Piccolo” voce di un Occidente nemico
Roberto Covaz
Il valico di Casa Rossa in una foto degli anni Sessanta. A Nova Gorica c’è un piccolo museo dedicato al contrabbando in auge nel dopoguerra fino alla caduta della Jugoslavia
Il valico di Casa Rossa in una foto degli anni Sessanta. A Nova Gorica c’è un piccolo museo dedicato al contrabbando in auge nel dopoguerra fino alla caduta della Jugoslavia

Il colore giallo canarino della Fiat 128 sembra assorbire tutto il calore del sole torrido di luglio. L’autoradio ha appena gracchiato che il 1970 sarà ricordato a lungo per l’eccezionale ondata di calore. Ma i finestrini dell’auto sono chiusi, pure il deflettore è saldamente ancorato al gancio. Il papà suda copiosamente, le nocche delle mani sono bianche a forza di stringere il volante. Mamma è una sfinge, la lacca dà i primi segni di cedimento nella fornace dell’abitacolo. Nel sedile posteriore boccheggio ma non oso aprire bocca: ho insistito tanto perché mi portassero con loro alla fabbrica Meblo di Nova Gorica a comprare il letto nuovo. La nostra auto è ferma, come decine di altre, in coda al valico di Casa Rossa a Gorizia.

«Vai a comprare un letto in Jugoslavia?», avevano chiesto a mia mamma i parenti, sbalorditi.

«Costa la metà», aveva risposto frettolosa.

«Sì, ma il confine…», incalzavano gli altri con un tono di rimprovero.

A quel tempo ero un bimbo di otto anni e immaginavo solo vagamente cosa fosse un confine. Quello con i vicini di casa era invalicabile; non so quanti palloni avrò lasciato dall’altra parte. Mai una volta che me l’abbiano restituito. Soprattutto se la sfera planava sul colorato tappeto di tulipani.

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Cinquantuno anni dopo, ripenso a quel giorno e sento ancora la paura ricordando il mio battesimo della frontiera con la Jugoslavia. Il letto della Meblo è come nuovo, roba buona. In famiglia lo consideravamo un trofeo.

Ancora oggi posso descrivere quei minuti interminabili in coda al valico: «Osservo attorno, sudo copiosamente, il silenzio dell’abitacolo è opprimente. Cosa ho fatto di male? In fondo ho solo chiesto ai miei un letto nuovo. Tutto questo caldo: era meglio se andavo a Marina Julia con la nonna. Tante macchine in fila, immobili. Una con il cofano aperto, un’altra con il baule spalancato. Da un camioncino i controllori hanno smontato il sedile e si sono infilati dentro in cerca di chissà cosa. D’improvviso, alla mia destra, il finestrino viene oscurato da un faccione che neanche i mostri che mi sogno la notte mi fanno così paura. Indossa uno strano berretto, come una barchetta capovolta. Mi pare di colore verde: è rossa invece la stella cucita sul frontino. Oddio, non può essere. Il tizio inforca un enorme fucile. Non è un film. Che paura. E si mette a urlare: Stoj, stoj. Chissà cosa vorrà dire?».



Avrei saputo dopo che il faccione apparteneva a uno dei graniciari, i militari jugoslavi che presidiavano i valichi. Sono tornato tante volte a Casa Rossa e la più bella è stata la notte del 20 dicembre 2007, quando la sbarra del confine fu tagliata e rimossa. La Slovenia era stata accolta nell’Area Schengen: via i confini, via il lasciapassare: la mitica propusnica.

Non sapevo in quel giorno di luglio del 1970 che stavo valicando la cortina di ferro, che per andare a fare la spesa “oltre”, bisognava imbrogliare ai controlli. Carne, caffè, benzina, caramelle, liquori. Le persone che vivevano a ridosso del confine non esitavano a trasformarsi in piccoli contrabbandieri.

“Il confine è protetto per il 97 per cento dalla paura, l’altro tre per cento è protetto dalla dogana, dalla polizia e dall’esercito”.

Leggo questa frase illuminante di un doganiere sloveno in pensione, pubblicata nel libretto che vendono tra i gadget del museo del contrabbando di Nova Gorica. Si trova proprio a pochi passi dal valico pedonale del Rafut. È stato allestito nell’ex casermetta dei graniciari. Oggi sorrido, ma quella volta del lettino non c’era da scherzare. Tuttavia le gommose caramelle alla menta per me, il tenero “straculo” per l’arrosto che cucinava la mamma e lo Stanigranica (versione jugoslava dello Strega) per papà erano sirene ammaliatrici.



L’ex valico pedonale del Rafut, ai piedi del Castello di Gorizia e del santuario della Castagnavizza, è un luogo che pulsa storia, soprattutto quella del Novecento goriziano difficile da raccontare. All’interno del museo, oltre agli oggetti proibiti di un tempo, c’è una stanzetta arredata molto spartanamente con una scrivania, una sedia in legno e un armadietto. Lì dentro i graniciari interrogavano il contrabbandiere di turno. Quanti ne hanno beccato di “furbetti” che baravano sul pieno di benzina (la mitica Petrol) taroccando sul cruscotto il livello della riserva.



Tra le merci proibite da introdurre in Jugoslavia c’era pure Il Piccolo, che raccontava di un occidente democratico così pericolosamente vicino per il governo di Tito. L’ex valico del Rafut è uno specchio che riflette le sofferenze di tante donne e tanti uomini a lungo divisi dal confine, ma nello stesso tempo un faro che illumina la verità più importante: alla fine vince chi osa. Come osarono le migliaia di sloveni, italiani e croati che domenica 13 agosto 1950, provenienti dalla Jugoslavia, invasero pacificamente Gorizia per incontrare, dopo anni, vecchi amori, parenti e amici. Quel giorno i fucili dei graniciari non spararono nemmeno un colpo; furono spazzati da quelle scope di saggina acquistate a migliaia e che consegnarono alla storia quella giornata come la domenica delle scope. —

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