Altieri e il colore appassionato

Oggi la presentazione del catalogo della mostra ai Musei provinciali di Gorizia

Domani, alle 18, ai Musei Provinciali di Gorizia, verrà presentato il catalogo della mostra “Sergio Altieri. Il colore appassionato. Opere 1949/2018”, antologica tutt’ora in corso (fino al 22 luglio) che ripercorre 70 anni dell’artista di Capriva del Friuli. Un volume ricco, che raccoglie in 240 pagine, le riproduzioni delle circa ottanta opere in mostra, molte immagini di carattere biografico nonché i contributi del curatore Giancarlo Pauletto e dei critici Licio Damiani, Joško Vetrih, Francesca Agostinelli e Raffaella Sgubin. Gli apparati del volume contengono una esaustiva rassegna bibliografica e sono corredati da ritratti fotografici dell’artista di Danilo De Marco e Paolo Gasparini. La grafica è a cura di Giovanni Di Natale, mentre le immagini sono di Luigi Vitale, Gianni Benedetti e Carlo Sclauzero.

Il titolo scelto per la mostra è “Il colore appassionato”. Sergio Altieri, si ritrova?

«Sì, penso di sì, è quello che, in qualche maniera, giustifica la mia pittura. Se togli il colore dalla mia pittura non rimane niente, o quasi, oltre al racconto, che ha sempre avuto molto importanza per me. È una parte, una fase, alla quale sono legato perché, per almeno alcuni anni, mi sono dimenticato delle mie cose private. Nei quadri dipinti dal 1952 al ’57 si tentava di interpretare il sentimento, le speranza di molta altra gente, che non fosse solo il privato del pittore. Per quanto mi riguarda i primi quadri, dipinti nello studio di Gigi Castellan, ogni volta che li rivedo penso che avrei potuto chiudere lì. Rimane il fatto che un paio di quei piccoli quadri sono stati esposti nel 1949 alla Triveneta di Trieste, una mostra dove c’erano i massimi maestri delle Tre Venezie. E se quella volta mi era sembrato molto strano essere lì, adesso, vedendoli dopo tanti anni, penso che, bene o male, erano già il massimo che potevo fare all’epoca. Nel mio piccolo, quei quadretti del ‘49, per me hanno lo stesso valore degli ultimi quadri, dove sembra ci sia qualcosa di più di conoscenza, tecnica, colore. Del resto le approssimazioni, i difetti del dilettantismo di allora, emergono anche adesso dopo 70 anni».

Il senso della sua ricerca?

«Non ho cercato mai niente, ho lavorato tanto, il verbo ricercare è un verbo che non conosco. Quando ero giovane non si usava. A parte che non c’erano reggimenti di pittori come adesso, in genere quelli che dipingevano avevano quello che i critici, più o meno ingenuamente, ma sinceramente, definivano “l’intimo sentire”, dopodiché se uno ha qualcosa da dire, non occorre cercare proprio niente, semmai il problema è l’insufficienza nella preparazione, l’approssimazione, il disordine, tutte queste cose negative, che però fanno parte del lavoro. Qualche volta diventa faticoso proprio perché uno non è preparato, perché è l’eterno dilettante, perché siccome ha tante cose che vorrebbe dipingere, per le quali nutre un affetto, un’attrazione, c’è una distanza tra quello che lui vorrebbe fare e la capacità di tradurle in pittura. Del resto ho un magazzino pieno di temi che non riuscirò a sviluppare, soltanto in questi ultimi anni ho cinque-sei temi che volevo svolgere e ne sono riuscito completamente sconfitto».

Il suo dipingere è un racconto. Quanto ha influito ciò che ha letto?

«Se avessi studiato un po’ la figura, il paesaggio dal vero, il ritratto invece di continuare a riempirmi la testa di letture di ogni genere… Era facile immaginare i ragazzi di Pasolini che correvano in giro in bicicletta da una sagra all’altra o Carlino del Castello di Fratta che viene maltrattato dalla piccola Pisana, personaggio incredibile, indimenticabile… perché li vedevo attorno a me, erano personaggi del mio paese. Il dipinto della “Festa popolare in Friuli” del 1955 è la sagra del mio paese. La distanza è tra il volere dipingere una cosa e il saperlo fare, tutto qua. Se uno non ha niente da dire, non ha niente dentro di sé, può cercare quanto vuole, non troverà mai nulla».

Era facile perché era quello che la circondava. Adesso cosa la circonda?

«Personaggi che non riuscirò mai a dipingere della letteratura classica come Alcesti, è un personaggio femminile bellissimo. Ci ho provato quattro o cinque volte, ma non c’è stato niente da fare».

Una delle ultime sue opere è la “Battaglia dei centauri e lapiti”, di grandi dimensioni. Come nasce?

«È il ricordo di un primo viaggio con un mio amico pittore, Armando Depetris, in Grecia, tanti anni fa, e poi tanti altri viaggi successivi, e l’incontro con le sculture del Tempio di Zeus a Olimpia. Sono cose inarrivabili, da un lato ti rendi conto di quello che è veramente l’arte, di come dovrebbe essere, di quello che ha suggerito invano per secoli all’uomo che non è stato capace di ascoltare. Basta che ti guardi in giro, basta che apri un giornale e vedi quello che è il risultato tra le eterne lotte tra centauri e lapiti, tra la violenza e la gentilezza, tra la barbarie e la civiltà, tra la malattia e la salute. Sono significati eterni, le grandi opere d’arte sono per sempre, e fa conto che non l’abbia detto uno di Capriva. In questi settanta anni di lavoro, l’elemento unificante, il filo rosso che appare ovunque è quel senso di ansia e di inquietudine, e l’abbraccio, il voler stringersi a qualcuno, anche in un dipinto come “Battaglia tra centauri e lapiti”. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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