Arbe, la memoria da integrare

di BORIS PAHOR
Il termine rimossa che riguarda una memoria, si trova nello scritto, pubblicato il 15 febbraio sul quotidiano di Torino “La Stampa”, dedicato all'isola di Rab (italiano Arbe) dove c'era il campo di concentramento italiano organizzato dalle Forze Armate (a differenza degli altri campi fascisti di Gonars, Chiesanuova, Treviso, Visco Renicci e altri due o tre). Il giornale, per far vedere ai lettori di che campo si trattava, mette al centro della pagina la fotografia di un folto gruppo di bambini scheletrici, aggiungendo che il campo funzionò tra il giugno 1942 e il settembre 1943 e che nel Campo ci furono cento mila prigionieri, i morti circa cinquemila. L'autore dell'articolo è lo storico Eric Gobetti.
L'importanza principale del suo intervento sta nella constatazione dell'anomalia storica che «riguarda la memoria della Seconda guerra mondiale». «Per una serie di ragioni - storiche, politiche, psicologiche - abbiamo rimosso gran parte dell'esperienza di conflitto precedente all'Armistizio dell'8 settembre 1943 e tutto il Ventennio precedente viene riscattato dall'esperienza partigiana che ricrea dalle ceneri del fascismo un'Italia nuova e democratica».
Una constatazione basilare - per quanto mi riguarda, avendone purtroppo constatato l'esattezza (vedi “Il Piccolo”, “Il Corriere della Sera”, “Il Sole 24 Ore” e altre pubblicazioni) dall'apparizione nel 2004 delle Legge del Ricordo riguardante il 10 di febbraio - che è la prima che ho il piacere di leggere. E ho il piacere di fare i miei sinceri complimenti allo storico Eric Gobetti, alla “Stampa” e allo spirito di verità e di giustizia ereditato da Dante a cui l'Italia culturale è fedele, quella politica no.
Sono perciò lieto di poter trascrivere anche la conclusione dell'intervento di Gobetti, che fa onore alla cultura italiana: «Da qualche ora si è spento l'eco del Giorno del Ricordo, la data commemorativa istituita nel 2004 in omaggio alle vittime della violenza (molti gettati nelle foibe) sul confine orientale alla fine della guerra, e ai profughi dell'Istria e della Dalmazia. Ricordare significa innanzitutto conoscere, capire. È questo il modo per onorare le vittime, tutte, da una parte e dall'altra, di una guerra ingiusta. Il ricordo dei nostri caduti, dei nostri deportati nel Terzo Reich, delle vittime delle violenze jugoslave deve necessariamente essere affiancato dalla ferma condanna delle responsabilità storiche dell'imperialismo fascista. C'è bisogno che questa conoscenza, questo riconoscimento diventi memoria pubblica, senso comune. Ma serve l'impegno di tutti, degli studiosi, dei divulgatori, delle istituzioni. Sono passati quasi settantacinque anni. È tempo di affrontare consapevolmente questa pagina di storia senza retorica, senza paura, senza tabù: con la serenità del vecchio reduce che non ha niente da nascondere, niente da temere».
A proposito del consiglio dell'autore di far estesamente conoscere i crimini dell'imperialismo fascista, egli lo fa citando il 10 di febbraio, il Giorno del Ricordo. È come se senza dirlo lo ritenesse in parte una rimozione della memoria, giacché in una parte del suo scritto dice: «Nell'immaginario collettivo gli italiani appaiono sempre come vittime».
Qui mi scuso se mi prendo la libertà di citare ancora me stesso. Già nel 2004 su invito de “Il Piccolo” scrissi che la Legge del Ricordo è ingiusta e non europea. Questa affermazione la facevo, spiegandola, durante i moltissimi incontri con gli studenti, invitato dai Direttori dei Licei o dai Presidenti di diversi istituti. Affermazione ripresa anche dal “Corriere della Sera”, presente in un mio diario che il giornale stava pubblicando, mettendola come titolo con caratteri appropriati. L'unico commento lo ebbi dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che disse: noi non dimentichiamo mai ciò che il fascismo ha fatto (non ricordo il verbo usato, cito a memoria) agli sloveni e ai croati. Una frase simile la disse durante una visita agli italiani in Croazia.
Come democratico, come umanista, come scrittore sloveno, come cittadino italiano dal 1918 insisto che la popolazione italiana e soprattutto i giovani siano al corrente del genocidio culturale al quale sono stati assoggettati gli sloveni e i croati per un quarto di secolo nella Venezia Giulia. Siccome anni fa, nel 1993, i due governi italiano e sloveno decisero di costituire una Commissione mista storico-culturale italo-slovena per la documentazione delle relazioni nel periodo 1880-1956, sperando che il documento, composto dagli storici, venga pubblicato e inserito soprattutto nei manuali di storia, come hanno fatto i francesi e i tedeschi. Invece, per «ragioni storiche, politiche e psicologiche» (Eric Gobetti) non è stato veramente reso pubblico, ma è stato messo in un cassetto.
Perciò quando fui invitato a dire in un numero speciale dell'importante rivista MicroMega dedicato alla Resistenza, della Resistenza slovena, mi decisi a parlarne iniziando dal 1926 quando la popolazione decise di essere antifascista e nacque anche una organizzazione clandestina che operava capillarmente dal 1926 all'8 settembre 1943. Nonostante il repentino subentro del nazismo a Trieste bisognò ancora difendersi da un centro di polizia italiana criminale (nota come Banda Colotti) che restò attivo fino all'aprile 1945.
Fu normale che per “MicroMega” dicessi anche della resistenza all'occupazione militare e fascista delle cosiddetta Provincia italiana di Lubiana dalla primavera del 1941 all'8 settembre 1943 con l'annessione della Provincia all'Italia Imperiale. Al Fronte di Liberazione nazionale sloveno, fondato nel 1941, si aggiunsero anche molti sloveni della Venezia Giulia. Devo dire anche dello scontro delle forze armate italiane e del fascismo perché purtroppo procurò 14.000 morti tra ostaggi e vittime dei Campi concentramento (tra cui quello di Rab dove ci furono dai 1600 ai 2400 morti, numero incerto perché veniva seppelliti tre cadaveri alla volta) con un grandissimo numero di case e di edifici distrutti e di paesi bruciati.
Quando ebbi in mano il numero, quasi libro di “MicroMega” sulla Resistenza, scoprì che l'introduzione era stata fatta del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ne fui molto lieto per la grande stima che ho del Presidente della Repubblica, specialmente per le sue sagge parole dopo gli incontri all'estero, ma allo stesso tempo mi dispiacque perché se avessi saputo della sua onorevole presenza nella rivista mi sarei rivolto a lui con la proposta di formare o che fosse formata una nuova commissione storico-culturale per le relazioni italo-slovene dal 1858 ad oggi, quando constatiamo la reale amicizia tra i due stati e i due popoli. Però con soddisfazione prendo atto che sulla “Stampa” ciò che io pensavo di dire al Presidente della Repubblica con un mio scritto ora viene anche a lui rivolto dallo storico Eric Gobetti, il cui articolo mi ha persuaso a scrivere questo mio intervento.
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