Arrivano gli 80 anni di Francesco Guccini che guarda al Campiello dalla sua Pávana

il personaggio
Non è una sorpresa per i gucciniani doc l’ingresso del loro vate nella cinquina appena annunciata dei finalisti del Premio Campiello. I gucciniani sono gente complessa e colta, avranno letto tutti i libri che Francesco ha scritto fin dall’89, da Croniche epafaniche in poi.
Sono cinque i titoli di suo solo pugno (senza cioè quelli con il coautore Loriano Machiavelli, che fanno salire di molto il conto) con questo ultimo “Tralummescuro. Ballata di un paese al tramonto” (Giunti). L’opera rimpolperà l’agognata categoria dei lettori, adesso che se ne parla per via del Campiello, in attesa della proclamazione del vincitore: si presume in settembre, Covid permettendo. Per Francesco sarà stata una notizia sorridente, questa del Campiello. E lo avrà un poco distratto dalle riflessioni intorno a un momento cruciale della sua esistenza. Il 14 giugno compirà 80 anni, una cifra da digerire con calma anche per uno come lui che da tempo si definisce, con un po’ di civetteria, «vecchio»; ma soprattutto, per via di questo compleanno, fin dalla fine del 2019 i telefoni di chiunque gli stia intorno squillano nella ricerca di un colloquio, di una intervista o di quattro parole, e sul tablet del suo ufficio stampa c’è un calendario che non finisce più, in mezzo al quale si sono infilati altri eventi degni di nota. Per Carlin Petrini e la sua iniziativa sul 25aprile #Io resto libero, Guccini in felpa rossa ha ricantato - lui che non canta più - la versione contemporanea di Bella Ciao («... E ho trovato gli invasor... C’eran Salvini, con Berlusconi... con i fasci della Meloni che vorrebbero ritornar»); con Diego Bianchi a Propaganda Live ha invece conversato sul lockdown e sulle canzoni cantate dagli italiani sui balconi prima che scappasse la pazienza.
Ma più si arrampica su Pàvana, più una fetta cospicua d’Italia continua ad essere legata al filo rosso delle sue canzoni. Anche se ormai a Francesco Guccini interessano meno, e dice di non volerle riascoltare; e anzi ha raccontato che, quando la moglie Raffaella mette su un suo album invece che uno di Zucchero o di Capossela, lui la prega, appunto, di cambiar disco.
Eppure in momenti topici, segmenti di cittadini, spesso nati ben dopo il 1972 di Radici, a quel corpus sodo e dotto, struggente o iroso, continuano a far riferimento. Ma Guccini, niente. Lui torna sempre con la mente a Pàvana, nella sua vita pratica e in quella di scrittore, con occhio sempre nuovo e innamorato (e questa volta, nell’ultima opera da Campiello, accorato).
Il paesino sull’Appennino tosco-emiliano era la patria dei suoi nonni. Lì ha scelto di rintanarsi alcuni anni fa, abbandonando via Paolo Fabbri 43 (un indirizzo, e un disco e che disco: quello dell’Avvelenata) a Bologna. I soliti gucciniani non l’hanno presa benissimo.
Ora la processione si è spostata sull’Appennino, dove in fondo è più facile trovare la casa antica e bussare: «A volte mi raccontano che le mie canzoni hanno un ruolo fondamentale nella loro vita», ha rivelato Francesco, confessando pure come càpiti che non ne possa più della processione e della pressione, e preferisca nascondersi.
I problemi alla vista gli hanno regalato un senso diverso della vita. Adesso, di pomeriggio c’è una ragazza che legge per lui ad alta voce; la sera, poi, è la moglie Raffaella che accontenta la sua sete di libri. —
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