Bazlen, Saba, Amidei il romanzo del Novecento secondo Debenedetti

la riedizione
«A casa non lo voglio». La moglie di Giacomo Debenedetti, Renata Orengo, non poteva soffire Bobi Bazlen. È nemico di tutte le mogli, si lamentava, ma nella casa romana del critico letterario Bazlen era di casa, «è una medicina necessaria alla nostra cultura, alla nostra educazione alla nostra civiltà», ribatteva Debenedetti. Bazlen, «mangiato dall’intelligenza e dalla nevrastenia» e Saba «capriccioso a avvolgente, possessivo, desideroso di essere amato anche nella sgradevolezza», (i giudizi sono del figlio di Debenedetti, Antonio, racchiusi nel suo memoir famigliare ‘Giacomino’) salivano all’Aventino e portavano scompiglio con le loro nevrosi nella quiete famigliare di quello che Gianfranco Contini riconobbe come il “primo critico letterario italiano di questo secolo”. A volte arrivava in bicicletta, pedalando con le mollette in fondo ai calzoni, un altro giuliano, lo sceneggiatore Sergio Amidei. I tre mitteleuropei erano ascoltati influencer di Debenedetti, tanto che finì pure lui, come Bazlen, per frequentare lo studio dello psicanalista Ernest Bernhard.
La sua tensione verso la psicologia si travasò nell’approccio ai testi. Voleva fare il romanziere, finì con l’essere un cattedratico senza cattedra, secondo la definizione di Montale, ricordando il cruccio della beffa maligna che gli fu perpetrata. Libero docente a Roma e Messina, a Debenedetti venne rifiutato il posto di ordinario. Le sue lezioni erano leggendarie. Le scriveva minuziosamente a casa; poi parlava a braccio, infine rivedeva i testi. Dopo la sua morte, nel 1967, la moglie cominciò a leggere i quaderni, stesi tra il 1961 e il 1966, e decise che andavano salvati. Così copiò i manoscritti con una macchina da scrivere elettrica e si rivolse per un parere a Gianfranco Contini. Questa la genesi de ‘Il romanzo del Novecento’, apparso nel 1971 e che trova ora nuova veste editoriale, ma immutato nel testo (compresa la nota di Montale) con l’aggiunta di una doppia introduzione (La nave di Teseo, pag. XXXVIII-658, euro 25), di Mario Andreose e Massimo Onofri.
Il titolo è un riconoscimento per la sua vocazione mai pienamente espressa. Fu comunque un artista compiuto, secondo Montale, un incomparabile virtuoso di testi. Immergersi nella letteratura fu per lui un fatto vitale, leggeva il mondo come una pagina da rivivere.
Il Novecento letterario di Giacomo Debenedetti cominciò con un cazzotto, scrive Walter Pedullà. Col cazzotto che, secondo il critico, all’improvviso il protagonista dei romanzi di Svevo si sente dare dalla vita. Il cazzotto di Svevo inaugura la storia di personaggi che si colpiscono da sé senza sapere perché lo fanno. Alcuni vanno k.o., a cominciare da quel kappaò che è il suicidio di Alfonso Nitti. È lui il primo ad averlo subito così, ad esserselo inflitto in quel modo. E di Svevo è il primo micidiale cazzotto alla struttura della narrativa dell’Ottocento, per passare a quella del Novecento nella quale, secondo Debenedetti, si procede “a pugni” in testa. C’è pure chi rinasce a seconda vita, quella che conta, quella che esplode a ciel sereno: l’epifania di Joyce, un narratore che conta molto per la nascita della struttura narrativa del ’900.
Come nascevano le sue lezioni, lo ricorda il figlio Antonio. Non riaffiorava alla vita prima dell’una, preceduto da due lunghi squilli di campanello e dall’impaziente richiesta di un’intera macchinetta di caffè da tre tazze. Solo dopo un’ora o due si riappropriava del suo abito di irresistibile conversatore, ‘charmeur mitteleuropeo’ e poi, a tavola in punta di sedia, con la sigaretta sempre accesa, metteva in scena la ‘teatrale parodia di un pranzo’. Seduto su una poltrona senza molleggio, appoggiato a un tavolino di vetro, Giacomo scriveva con una penna a sfera su un quadernetto a righe: oltre alle sigarette e al portacenere, non gli serviva altro. —
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