Biennale, il Kenya fa marcia indietro

Il governo si ritira per le polemiche sugli artisti e sui rapporti con Pechino (che paga)

ROMA. «Il governo del Kenya ha ufficialmente ritirato la propria partecipazione alla 56° Biennale di Venezia. A noi lo ha comunicato la Fondazione della Biennale con una mail di poche righe, e questo ha provocato non pochi problemi a chi ha lavorato al padiglione»: lo ha detto ieri a Roma Paola Poponi, commissario del Padiglione del Kenya, in una conferenza stampa a cui ha partecipato anche Sandro Orlandi Stagl, il curatore di «Creating Identities», la mostra che avrebbe dovuto rappresentare il Paese africano a Venezia. La decisione, che esautora entrambi, è stata presa dal governo a pochi giorni dall'apertura (il 9 maggio), e sembra essere di fatto provocata dal fiume di polemiche (prevalentemente sul web) relative non solo alla nazionalità degli artisti invitati (un'unica keniota, Yvonne Apiyo Braendle-Amolo, residente in Svizzera, insieme a 6 cinesi e a un italiano, Armando Tanzini, livornese e keniota d'adozione), ma anche a presunti interessi politico-economici tra il Paese africano e la Cina (da cui la mostra è finanziata). «Ci sono piovute addosso falsità e sciocchezze - ha detto Poponi - se il governo keniota ha sconfessato se stesso è una banderuola: per metterlo in crisi sono bastate 500 firme e una petizione su internet». Poponi ha espresso amarezza anche per il trattamento «poco rispettoso» ricevuto a suo dire da Venezia, ma la Biennale fa sapere di «avere rapporti soltanto con i governi riconosciuti dall'Italia, e in nessun caso con i curatori». La mostra, a San Servolo, si farà comunque, senza bandiera e logo della Biennale.

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