Claudia Endrigo «Mio padre Sergio che viveva d’amore»
Esce un libro-omaggio al grande “artista per caso” Giovedì la presentazione al Caffè San Marco

«Io faccio un mestiere come un altro. C’è chi fa l’avvocato, chi l’imbianchino o il medico, io canto e questo voglio fare, non riempire i rotocalchi per avere più successo». Sono parole di Sergio Endrigo, grande cantautore nato a Pola nel 1933 e venuto a mancare nel 2005 a Roma. È sua figlia Claudia Endrigo a raccontarlo in maniera inedita nel libro
“Sergio Endrigo, mio padre–Artista per caso” (Feltrinelli, pagg. 205, euro 16)
che verrà presentato giovedì 23 novembre alle 18.30 all’Antico Caffè San Marco. «La sua arte, la sua poesia, la sua musica devono ancora trovare il giusto spazio per essere ricordate», afferma Claudia.
Vincitore del festival di Sanremo nel 1968 con “Canzone per te”, nel ’69 arriva secondo con “Lontano dagli occhi” e terzo nel ’70 con “L’arca di Noè”. Nel corso della sua carriera ha collaborato con scrittori e poeti come Gianni Rodari, Pasolini, Vinícius de Moraes, Ungaretti e musicisti come Toquinho, Luis Bacalov, Ennio Morricone.
Dopo tanti successi internazionali, a metà anni ’80 iniziano i guai: album mal distribuiti e promossi, e un serio problema di udito rendono difficile il suo percorso, anche se la stima di fan e colleghi non viene mai meno. Battiato, Ornella Vanoni, Mina, Massimo Ranieri, Simone Cristicchi, Morgan: la lista degli artisti che negli anni hanno riletto le sue canzoni è lunga. Nel 2001 il Premio Tenco è tutto dedicato a lui.
Claudio Baglioni nella prefazione del libro, prendendo a prestito la definizione di Calvino sui classici, sottolinea come le canzoni di Endrigo «non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire». Gaio Fratini, poeta e critico, scriveva: «Lo stile di Sergio Endrigo non si presta a comode catalogazioni, così vivo, ingenuo, vario, instabile, incline sempre all’avventura. La voce sembra giungere da molto lontano, estranea com’è a ogni formula, a ogni compiacimento... Un’accorata vocazione musicale che ha poco o nulla da spartire con le mode e le civetterie della musica leggera d’oggi».
«Sono l’ultima Endrigo - esordisce Claudia - e volevo lasciare una traccia. Ho scritto questo libro perché mancava. Il mio sogno è che smuova un po’ anche la discografia con qualche ristampa, perché molti album sono introvabili. Ho anche scritto uno spettacolo in cui racconto e canto papà assieme ad altri cantanti: spero si concretizzi».
“Un uomo per bene”: così viene definito Sergio Endrigo nel suo libro.
«Era una bella persona. Con tutti i suoi difetti. Profondamente buono».
Lei scrive: “il mare era il nostro elemento naturale”...
«L’amore per il mare, dall’infanzia a Pola, gli rimarrà appiccicato tutta la vita. E me lo ha trasmesso. Su di noi esercitava un’attrazione irresistibile. Dopo la sua morte ho sofferto di crisi d’ansia, sono tornata a Pantelleria a distanza di più di quarant’anni ed è come se avessi rivisto mio padre là, in quel mare dove era stato felice e spensierato: in barca mi sono sentita in pace, come fosse un calmante naturale».
Suo padre fu costretto a lasciare Pola, ma non visse l’esodo come un trauma.
«Non l’aveva capito. Aveva 13 anni e gli adulti ne parlavano sottovoce. Ha avuto l’immensa fortuna di non finire in un campo profughi. È andato in un collegio per esuli e poi ha cominciato a lavorare. La consapevolezza della tragedia gli arriva solo molto dopo: la sua canzone “1947” è del 1969, la scrisse pensando più alla madre che a se stesso. Mia nonna aveva dovuto lasciare quel poco che aveva, furono sradicati dalla loro terra, dalla loro casa. Il famoso Magazzino 18 ci dice molto di quel periodo».
“Mi me ciamo Sergio e son de Pola, se qualchedun de questi mona te dà fastidio o i te fa i scherzi, dillo a mi”, dice suo padre a un compagno di collegio a Brindisi.
«Lo sentivo sempre parlare in dialetto con il suo caro amico Bruno Stella, e mi divertivo da matti. E con “nonnetta”, che è morta nell’87. Sono cresciuta più con lei che con mia madre, ricordo le sue ricette:
fritole, gnochi de susini, chifeletti, el brodo brustolà
…».
Dai tre ai sei anni Sergio visse dagli zii a Trieste.
«C’era Ifi, la sorella di nonna che viveva in via San Vito 1/1, il cugino Roberto Ricordi… Negli anni ci venivamo spesso, mi ricordo il famoso pinguino Marco, chiedevo sempre di portarmi sulle Rive, al porto... Nel 1981 papà aveva anche partecipato a uno spettacolo della Contrada, “Un sial per Carlotta”. Entrambi eravamo legatissimi a Trieste, e la presentazione del libro al San Marco è quella che più mi emoziona».
“Trieste” è anche il titolo di una struggente canzone dell’album “…E noi amiamoci” del 1981.
«È poco conosciuta ma la trovo meravigliosa».
Il repertorio di Endrigo è pieno di tesori nascosti.
«Per questo ho creato un canale YouTube (ci si arriva anche dal sito www.sergioendrigo.com) pieno di chicche».
Poco note e bellissime anche le “Canzoni venete” del 1976.
«In due pezzi di quel disco c’è la collaborazione di Mia Martini. Purtroppo sono troppe le cose di papà che ancora non si conoscono ed è un gran peccato».
Gli animali erano parte integrante della famiglia Endrigo?
«Li abbiamo sempre amati, appena sposati papà aveva regalato a mamma due cocker, Colpo e Pussy. Nel ’67 ci siamo trasferiti in campagna fuori Roma, a Mentana, ed era un via vai di cani, gatti e il pappagallo Paco che è vissuto oltre 46 anni ed è stato l’ispiratore della canzone “Il pappagallo” scritta con de Moraes».
Nel libro Rita Pavone dice: “Non era a proprio agio nel mondo dello spettacolo, voleva solo cantare ed esprimere i suoi sentimenti in maniera pura, con la nostalgia che spesso si scorgeva nel suo sguardo”.
«Credo fosse un problema di insicurezza, Bardotti e Lauzi dicono che il peggior nemico di mio padre è stato se stesso. Non avendo le basi, non si sentiva all’altezza di altri, ma ciò lo rende ancora più grande: è riuscito a comporre capolavori senza aver studiato né canto né musica, aveva una voce straordinaria, ha composto melodie stupende sin dagli esordi con brani come “Aria di neve” o “Io che amo solo te” (secondo Ornella Vanoni “straordinaria e totale”, “la canzone perfetta” per Ennio Morricone)».
Bardotti riconduce quest’insicurezza alle origini istriane, come mai?
«Credo si riferisse allo sradicamento dalla terra natia in età molto giovane, e ciò ha influito sulla sua crescita. Poi ognuno vive le esperienze a suo modo. Rolando, fratello di mio papà, ha sempre avuto una rabbia repressa, descriveva la sua infanzia come tremenda, piena di freddo e miseria, invece mio papà ne parlava con tenerezza, come se non gli fosse mai mancato niente».
Si è reso conto della sua grandezza, ha goduto il successo?
«Della grandezza no, è sempre rimasto molto umile e aveva l’aria di un bambino stupito, come se non credesse a quello che stava succedendo. Si è goduto la disponibilità economica, anche se per un breve periodo, che gli aveva permesso di togliersi degli sfizi, non dei lussi. I soldi gli avevano fatto coronare alcuni sogni: la casa sul mare a Pantelleria, una barca a vela. Diceva sempre di essere grato al successo perché gli aveva permesso prima di tutto di aver garantito una vecchiaia serena a sua mamma, perché mia nonna aveva avuto una vita molto dura».
Ha portato la sua musica in Canada, Usa, Brasile, Cuba, Giappone, Urss…
«Ha girato tutto il mondo per lavoro, ed entrava in contatto con la realtà del paese. Diceva di sentirsi più brasiliano che italiano».
Un’ultima frase per ricordarlo?
«“D’amore non bisogna morire ma vivere”, diceva».
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