Coltellate in Cittavecchia
La sera del 24 settembre 1904 Antonio Freno assassinò la guardia Giacomo Nagode che gli aveva intimato di tacere

La vita non era stata molto generosa con Antonio Freno: nato a Trieste il 4 dicembre 1876, era rimasto presto orfano di madre e il padre, dopo il terzo matrimonio, aveva deciso di affidarlo alla Pia Casa dei Poveri in via Pascoli.
Liliana Bamboschek nel suo “Col coltelo in seno - Delitti eccellenti a Trieste” (Edizioni Il Murice) lo descrive come un ragazzo «cresciuto con gravi carenze affettive e un carattere instabile» che soffriva di epilessia e, fin da giovanissimo, con problemi di alcolismo. Fece molti lavori, ma non imparò mai un mestiere e finì per farsi mantenere da Lucia Popovich, una prostituta che lui stesso aveva derubato, ma che invece di denunciarlo si innamorò lui. La sua carriera di ladro lo fece ben presto conoscere alla polizia e la sua fama di violento abituato a girare «col coltelo in seno» si sparse presto tra gli abitanti e i frequentatori di Cittavecchia e Cavana.
È qui che Freno commise il suo atroce delitto il 24 settembre 1904. La serata era trascorsa come tante altre. Freno e cinque suoi amici, tra i quali Giacomo detto Moro e Giuseppe Ivanon, 20 anni, detto “Pepi Spinazza”, non paghi dei quattro litri che avevano bevuto nell'osteria di via Crosada, intorno alle 23.30 decisero di fare visita “Al pozzo d'oro”, nota anche come l'osteria di Placido. Lungo il tragitto Freno pensò bene di rallegrare la nottata cantando a squarciagola fino a quando non gli si parò davanti la guardia di pubblica sicurezza Giacomo Nagode, 29 anni, nativo di Longatico (Logatec), padre di due figli di 1 e 2 anni, impegnato nella quotidiana ronda notturna.
Tra i due non scorreva certo buon sangue: Nagode conosceva bene Freno, lo aveva già arrestato in passato e quando la guardia gli intimò di tacere e di andarsene, l’uomo, per tutta risposta, impugnò il coltello che portava sempre con sé e gli si avventò contro. Con una serie di colpi violenti Freno pose fine alla giovane vita di Giacomo Nagode che, secondo i testimoni, provò ad alzarsi dal terra e barcollò appoggiandosi al muro prima di cadere esanime sulla via.
L'esame del cadavere condotto dal dottor Monti rivelò «una gravissima ferita alla testa, denudante l'osso, una al collo con recisione della carotide sinistra ed una alla regione sotto clavicolare corrispondente». La notizia dell'assassinio si sparse velocemente nelle osterie della zona e giunse rapida anche alla polizia che diede immediato avvio alle indagini coordinate dal dottor Poliack. Furono interrogati tutti i possibili testimoni della zona, senza tralasciare nemmeno le case di tolleranza. L'operaio Girolamo Ravalico, ad esempio, ricordò che pochi istanti dopo il delitto un ragazzo sui 25 anni l'aveva fermato per strada dicendogli: «
Adesso go mazzà una guardia. Iero con i mii amizi e cantavimo, ela ne ga dito de taser e mi ghe go dà. Go dà un colpo sula testa, uno al colo e uno al peto»
.
I sospetti ricaddero subito su Antonio Freno, già noto alla polizia, e sui suoi amici che vennero presto arrestati. La caccia all'assassinio coinvolse tutta la città con un dispiegamento eccezionale di guardie. Gli ispettori notarono che la sciabola di Nagode era «lorda di sangue», segno che anche l'assassino era stato ferito. Braccato e sanguinante, Freno cercò un primo rifugio al Caffè Costanza in via del Torrente (oggi via Carducci) per poi fuggire nuovamente. Fattosi prestare 1 corona e 20 centesimi da un conoscente, si avviò «per la via del Molin a Vento» e di qui si incamminò verso Zaule dove chiese un passaggio a un conduttore di carro diretto a Capodistria. La fuga di Freno si concluse a Isola, dove si era fermato per farsi medicare la ferita e riposare da un'affittaletti. Allertate dalla polizia di Trieste, le guardie locali notarono il forestiero ferito e, dopo un breve interrogatorio, ottennero la piena confessione.
«Che i me copi, cossa me importa a mi»
disse Freno mentre veniva trasferito da Isola a Trieste in attesa del processo, che iniziò il 10 dicembre 1904. Una folla di curiosi attese con ansia l'esito del dibattimento e quando il giudice lo condannò a morte mediante capestro «dalla galleria – scrisse Il Piccolo dell'11 dicembre 1904 - parte un lungo “oh! che è meraviglia e fremito insieme». Nel maggio 1905 Freno ottenne la grazia e la pena di morte venne commutata in carcere duro a vita. Dopo aver trascorso parte della sua condanna tra diversi carceri, il 25 settembre 1926 venne graziato e rimesso in libertà. Di lui non si seppe più nulla se non che tornò a vivere a Trieste, si sposò con una vedova e morì il 10 marzo 1936.
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