Commedia popolare con una leggerezza che ti tocca il cuore

Ci sono piccoli film che non entreranno nella storia della critica cinematografica, ma che fanno bene al cuore e al cinema e ci dicono molto sullo stato della settima arte nel paese in cui vengono prodotti. È il caso di “La famiglia Bélier”, l’ultimo esempio di commedia francese popolare ma intelligente che ha divorato i botteghini nazionali incassando 8 milioni di euro e diventando campione stagionale di fine 2014. In una settimana di uscite molto francesi (arrivano in sala questo weekend anche “French Connection” e “L’ultimo lupo”) “La famiglia Bélier” ci dice infatti, proseguendo la scia positiva di film leggeri ma non banali come “Giù al Nord”, “Quasi amici” e il recente “Non sposate le mie figlie”, che il cinema francese è in ottima salute perché sa ancora valorizzare il proprio cinema popolare, senza sedersi su formulette standard e senza soffocare quello d’autore.
Il film di Éric Lartigau racconta di una famiglia di allevatori e produttori di formaggio della Loira: la madre Gigi (la grande Karin Viard, già attrice per Ozon, Klapisch, Cantet), il padre Rodolphe (François Damien), e i figli adolescenti Quentin (Luca Gelberg) e Paula (Louane Emera). La particolarità dei Bélier è che sono tutti sordomuti, tranne Paula, che oltre ad aiutare i genitori alla fattoria traduce per tutti dalla lingua parlata al linguaggio dei segni e viceversa, facilitando la comunicazione della famiglia al mercato, per strada, persino dal dottore. Grazie al suo insegnante di canto al liceo (Éric Elmosnino, famoso per aver interpretato Serge Gainsbourg nel film biografico “Gainsbourg”) Paula scopre però di avere un talento speciale proprio nella sua voce. Il professore le propone di partecipare a un concorso per entrare nella scuola di canto di Radio France a Parigi: la ragazza vorrebbe provarci ma ha paura che i suoi genitori, che contano tanto sul suo aituo, si sentano abbandonati. E così è: i Bélier la prendono come un tradimento anche perché, per loro, la “diversa” è proprio Paula, che sente e può cantare.
La trama di “La famiglia Bélier” ricorda da vicino molte altre storie di affrancamento adolescenziale e di scoperta di sé stessi: in questo, non ha nulla di molto originale. I suoi punti forti, però, stanno nei dettagli, negli angoli, come spesso accade nei film ben riusciti. Prima di tutto, funziona il ribaltamento del concetto del “diverso”: a doversi far accettare dalla famiglia è Paula, l’unico personaggio “normale”. E, come accadeva nell’altro campione d’incassi “Quasi amici” di Olivier Nakache, anche qui non si ha paura di sottolineare che le persone con disabilità non sono affatto “uguali” a tutti gli altri: affrontano scogli pratici, incomprensioni. Ma chi è diverso non è da meno: «Essere sordomuti non è un handicap, è un’identità», dice infatti Paula al padre. Anche “La famiglia Bélier” tratta la disabilità senza falsi pudori ma con ironia, tabù che invece il cinema italiano ancora non ha superato. Altro dettaglio che rende speciale il film: gli attori recitano da sordomuti pur non essendolo. E c’è qualcosa di davvero inedito nell’interpretazione di Viard e Damien, abituati a personaggi molto chiacchieroni e qui privi anche di una sola battuta, entrambi alle prese con la lingua dei segni. C’è una nuova espressività, qualcosa di affascinante che eccede le regole comuni del dialogo cinematografico.
Il maggior punto a favore del film, però, è la protagonista Louane Emera, 16 anni al momento delle riprese, già nota in Francia per aver partecipato alla versione d’Oltralpe di “The Voice”. È, insomma, una che viene da un talent, eppure lo “chicchissimo” cinema francese le ha aperto le porte senza pregiudizi non per un ruolo-fotocopia della sua fama televisiva, ma per un personaggio complesso, tanto che Louane ha vinto il Premio César, l’Oscar francese, come miglior rivelazione femminile. Certo, è un film furbo: nessuno potrà resistere a versare qualche lacrima mentre Paula canta la struggente “Je vole” della gloria nazionalpopolare Michel Sardou. Insomma, non aspettatevi un capolavoro o pretese d’intellettualismo, ma un film dal quale lasciarsi emozionare, per una volta, con semplicità.
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