Così cercarono la libertà le “Anime prigioniere” oltre il Muro di Berlino

Ezio Mauro nel suo libro pubblicato da Feltrinelli ricostruisce la vita e le fughe dei tedeschi della ex Ddr a trent’anni dai fatti che hanno cambiato la storia del mondo 
The first parts of the wall are demolished by citizens near the Brandenburg Gate, around midnight between 09 and 10.11.1989., 10.11.1989
The first parts of the wall are demolished by citizens near the Brandenburg Gate, around midnight between 09 and 10.11.1989., 10.11.1989

la recensione



La melodia della Lambada brasiliana faceva ballare l’orbe terracqueo, salda in vetta alle classifiche musicali del 1989. Modestamente, in Italia il cantautore Raf, con “Quel che resterà di questi anni 80”, era piazzato nella hit parade a un onorevolissimo sesto posto dei singoli più venduti. Inconsapevole di fissare un punto di filosofia pop, il testo sentenzia: “La radio canta una verità dentro una bugia, anni ballando, ballando Reagan-Gorbaciov” . Pochi mesi e quella canzone lanciata a Sanremo si sarebbe rivelata profetica, almeno nei termini generali, con il crollo del Muro di Berlino, coronatosi ufficialmente il 9 novembre di 30 anni fa e raccontato con partecipe cronistoria da Ezio Mauro, già direttore e ora editorialista di Repubblica, in “Anime prigioniere” (Feltrinelli, pagg. 203, euro 18). Un prolungato, estenuante sbriciolamento delle fondamenta ideologiche di quel sistema di fortificazioni eretto dal governo della Repubblica Democratica Tedesca, filosovietica, “un simbolo dell’assolutismo, una prigione ben più che una separazione” per impedire la libera circolazione tra Germania dell’Est e Ovest capitalista di uomini e idee. Il Muro dividerà Berlino in due per 28 anni, a partire dal 13 agosto del 1961 e “culturalmente sequestra il destino dell’Europa tracciando una trincea nel cuore del continente”. Ma la sua cappa si allarga all’intero Est europeo, ai Paesi satelliti dell’Urss, che in quella barriera vedono la metafora della loro costrizione.

Il filo spinato sorvegliato dai kalashnikov spezza le famiglie, ne sconvolge le vite, annulla progetti. Ora la divisione di cemento armato, che di giorno in giorno fagocita case, ponti, marciapiedi, templi, non è più tra due zone e sistemi politici, ma tra due concezioni di mondo. È progettata per restare definitiva, pendant europeo cui corrisponde il mausoleo di Lenin a Mosca. Il paradosso è che il mite Michail Gorbaciov, uomo delle riforme in Urss, il capo di Stato che si è già incontrato cinque volte con il presidente americano Ronald Reagan per avviare lo stop agli armamenti e alla Guerra Fredda, non riesce a convincere Erich Honecker, presidente della Ddr murato nella sua caparbietà teutonica, a imboccare il tentativo della perestrojka, della ricostruzione su basi socialdemocratiche. Così eresia e ortodossia bolsceviche si scambiano i ruoli, con la periferia dell’impero che si ribella alla capitale.

In realtà la capitale del comunismo è estenuata. Gorbaciov ipotizzerà in un articolo di suo pugno del 2006 che il disastro nucleare di Chernobyl del 1986 sia la vera causa del crollo dell’Unione Sovietica, rendendo “lampante quanto fosse vitale continuare la politica di glasnost. Il prezzo della catastrofe di Chernobyl è stato travolgente, sia in termini umani che economici. Non potevo continuare a fabbricare armi mentre pagavo per ripulire Chernobyl”. Nel perimetro radioattivo, sfollati gli abitanti, si organizzarono con il cuore spezzato battute di caccia, anche per sparare ai cani abbandonati: una morte rapida era preferibile a un’agonia per fame e malattia. “Felici di vederci correvano verso di noi scodinzolando” racconta un testimone. Non capiranno i domestici cani russi, non capiranno i 5000 pastori tedeschi della Ddr. Addestrati di notte, perché le fughe avvenivano quasi sempre con il buio, non avevano contatti sociali, nutriti solo ogni due giorni per renderli più aggressivi, sottratti subito alle madri, i denti rastremati con le fresatrici, sempre a catena. Ammaestrati a inseguire l’odore del grande sospetto sulla “striscia della morte” che corre al fianco del Muro, fiutano lo sgomento delle guardie di frontiera che da aprile prendono a smantellare le mitragliatrici posizionate per fare fuoco ad altezza d’uomo. Nessuna revoca all’ordine di uccidere chi tenta la fuga, perché quella norma era applicata ma non scritta, sfumata in un ambiguo alt “a tutti i costi”.

Ezio Mauro abbozza un computo delle vittime della Cortina di Ferro: 115, ma se si contano tutte le morti collegate in qualche modo alla barriera che correva per 156 chilometri, sono almeno 227, contro i 5000 tedeschi-orientali che la superarono con imprese folli, fantasiose, disperate, alcune beffarde. Una di queste è documentata da un filmato della Nbc, agenzia radiotelevisiva statunitense, che finanziò l’impresa portata a termine nel 1962, si può dire a Muro con calcina ancora fresca. Protagonisti di questo proto-reality, Domenico Sesta di Vieste, amico per la pelle di Luigi Spina dai tempi del classico al Dante di Gorizia, studenti d’ingegneria, poco più che ventenni. Sette mesi di scavo per rispettare la parola data, turnandosi con gli aspiranti fuggitivi nel cortile di una fabbrica abbandonata dove fingono di riunire una band musicale per le prove. Invece sono la banda del buco: 120 metri di “Tunnel della libertà” per 29 amici e la moglie di Luigi, Hellen. Dal suo libro di memorie verrà tratta l’omonima miniserie tv andata in onda nel 2004 su Canale 5. Agli altri toccherà attendere la libertà per decenni, ma passeranno attraverso la porta spalancata dal crack finanziario e morale del comunismo mummificato. Tanto è già un fuggi fuggi inarrestabile, facendo il giro da altri Paesi fratelli che hanno sciolto le briglie dei loro confini. Squarciato il Muro, racconta Mauro, i profughi inebriati gettavano dai finestrini dei treni i soldi tedesco-orientali, passaporti, chiavi di casa. La Ddr è uno Stato di cartapesta, un fondale abbandonato. “Ciò che lasci non conta più nulla: conta solo ciò che puoi trovare”. Il punto è proprio questo. Cosa la gente dell’ex Ddr, abbia trovato. Magari qualche disillusione, qualche incongruenza tra speranza e realtà. —

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