Costanza Quatriglio: «A Trieste una famiglia in fuga dai talebani»

di BEATRICE FIORENTINO
Costanza Quatriglio racconta, a Trieste, la genesi del suo nuovo lungometraggio "Sembra mio figlio". Prodotto da Ascent Film con il supporto di Mibact, Eurimages, Friuli Venezia Giulia Film Commission e Apulia Film Commission, il ritorno alla finzione della regista siciliana, a dieci anni da "L'isola", è un viaggio tra oriente e occidente nel perdersi e ritrovarsi di una madre e dei suoi figli, il racconto di un popolo pacifico e fiero come gli Hazara, attraverso le vicende di due giovani fratelli riparati in Italia ma non ancora al sicuro. La sceneggiatura è firmata dalla regista assieme a Doriana Leondeff, in collaborazione con Mohammad Jan Azad, le cui traversie hanno ispirato il film.
Le riprese sono iniziate il 19 settembre e si protrarranno fino a domani, in diversi punti della città e del circondario: un appartamento in via Belpoggio, piazza Barbacan, l'Ostello scout di Prosecco, l'Autoporto di Fernetti e il comprensorio di Melara, con brevi puntate anche a Monfalcone, Zaule, Prepotto, Rupingrande. Nelle prossime settimane la lavorazione proseguirà tra Roma, la Puglia e l'Iran.
Il cast, composto in parte da attori non professionisti, vede tra gli interpreti principali anche l'attrice croata Tihana Lazovic, vista di recente in "Sole alto" di Dalibor Matanic, premiato a Cannes nella sezione "Un certain regard" e distribuito la scorsa primavera dalla Tucker Film.
Quatriglio, dov'è l'origine del suo film?
«"Sembra mio figlio" è un film che arriva da lontano, nel tempo e nello spazio. Nel tempo perché nasce dalla collaborazione con una persona che si chiama Mohammad Jan Azad, che è stato il protagonista di un documentario che ho girato nel 2006. In questo film, che si intitola "Il mondo addosso", ho raccontato la storia di tanti minori stranieri non accompagnati che arrivavano in Italia per scappare dalle guerre e dagli stermini perpetrati dai Talebani nel 2000. Lui, Jan, era ancora un ragazzo. Negli anni successivi abbiamo coltivato il desiderio di continuare a raccontare il suo popolo, gli Hazara, attraverso una storia familiare. Un popolo che da sempre è tra i più perseguitati della Terra. Una storia familiare che è sostanzialmente universale. È la storia delle storie, per certi versi. Che può valere per chiunque viva uno stacco, uno sradicamento, un vuoto da riempire. Arriva da lontano anche in termini di spazio, perché questo è un film che mette in collegamento distanze geografiche, emozionali, emotive. È un percorso che ci porta dentro un mondo inizialmente completamente sconosciuto».
Come mai, dopo numerose esperienze nel documentario, ha deciso di tornare al cinema di finzione?
«Questa è una storia che va raccontata con il tempo dell'elaborazione, che è il tempo del processo dell'acquisizione della consapevolezza di ciò che si racconta. A me ci sono voluti dieci anni, ora questo processo lo restituisco allo spettatore, cui spetterà il compito di raccoglierlo».
Perché proprio gli Hazara?
«Gli Hazara sono entrati nella mia vita quando ho girato "Il mondo addosso", quando riprendevo questi ragazzi scappati dalle persecuzioni dei Talebani mentre l'Occidente faceva in parte finta di non vedere ciò che stava accadendo. Quando sono stati fatti esplodere i Buddha di Bamyan in Afghanistan, nel 2001, quindi in pieno clima da 11 settembre, nessuno ha voluto far caso a questo popolo che veniva sistematicamente sterminato. Nessuno badava a questi bambini, maschi, che le madri lasciavano andare per non farli ammazzare e che erano numerosissimi. La mia attenzione, girando il documentario, era rivolta ai minori stranieri non accompagnati, ma non conoscevo ancora la questione Hazara. Io ho raccontato tante storie di ragazzi raccolte nell'arco di un anno. E poi nella mia vita sono entrati loro. Jan e altri e le loro esperienze dolorose mi hanno conquistato per la loro universalità. E anche perché il loro è un pacifico e fiero. Non so cosa mi ha colpito. Probabilmente i loro occhi a mandorla, si dice che arrivino dalla Mongolia, la lingua indoeuropea, il loro essere perseguitati nei secoli… E' come se nella loro storia ci fosse l'origine del mondo, come se in questi volti trovassimo qualcosa che ci rende tutti comuni».
Su quali aspetti del pianeta immigrazione si è concentrata?
«Sulla persona, sull'individuo, sulla sua storia. Tutti i film che ho realizzato su questo tema, anche quando a nessuno interessava stare a sentire certe storie, parlano di persone, mai di statistiche o di numeri. Per loro la questione fondamentale è lo sradicamento, esistenziale e materiale».
Le storie individuali emergono troppo poco dalla comunicazione mediatica?
«Quello che faccio in questo film è qualcosa di insolito. Provo a raccontare delle vicende personali adottando un punto di vista non è estraneo a ciò che viene raccontato. Noi, in Italia, in questo momento, stiamo facendo un film adottando il punto di vista di qualcuno che non è autoctono, che non è originario del Paese, che non ha il marchio Doc. È una cosa abbastanza insolita rispetto allo sguardo sull'altro. Il protagonista ovviamente non è altro da niente, è come noi, è una persona. Un essere umano che subisce uno sradicamento».
Che futuro attende questi ragazzi senza famiglia?
«Io ho filmato un'ondata di minori nel 2005/2006. Ragazzini che scappavano perché gli venivano ammazzati i padri, i fratelli maggiori, a volte venivano arruolati per combattere contro i Talebani. Molti di loro si sono diretti nel Nord dell'Europa, in Norvegia, in Svezia, in Austria. Adesso purtroppo sta accadendo di nuovo, perché c'è una recrudescenza di violenze nei confronti del popolo Hazara. Il 23 luglio a Kabul dei kamikaze si sono fatti esplodere durante una manifestazione di sciiti, dicono. Era la manifestazione di un movimento chiamato "Illumination" nato dal popolo Hazara per chiedere di poter usufruire di luce elettrica laddove la luce non c'è».
Perché ha scelto di girare a Trieste?
«Trieste entra nella storia perché l'ho sempre considerata una città di confine, una città dove convivono etnie diverse, dove si parlano lingue diverse. È una città che secondo me dice molto dell'Europa di oggi. Per me Trieste è l'Europa. Nel bene e nel male. Una porta tra l'Oriente e Occidente che ha con sé la bellezza, il fasto, ma anche la decadenza di un mondo che non ci sarà più».
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