Dostoevskij secondo Woody Allen nei film delitti senza un colpevole
C’è un filo diretto che lega le pagine di Fëdor Dostoevskij ai film di Woody Allen, non quelli della produzione comica, la più nota e probabilmente la più riconoscibile del regista, ma i titoli del filone dedicato ai delitti, ai gialli, quasi sempre senza redenzione. A tracciare la linea tra lo scrittore russo e il regista americano è il libro “Delitti senza castigo – Dostoevskij secondo Woody Allen” (Mimesis Edizioni) scritto da Fabrizio Borin, direttore artistico del Premio Mattador e professore di Storia del Cinema all’Università di Venezia, che domani presenterà il volume alle 18 al Caffè San Marco in un incontro organizzato dall’Associazione culturale Mattador. Il confronto è affascinante, e parte da un contrasto: «Il titolo è “Delitti senza castigo” perché il colpevole, nei film di Allen, non viene quasi mai individuato», spiega Borin. «È una precisa filosofia del regista. Fin dagli anni ’70 Allen ha sempre avuto una doppia vena di narrazione: da una parte i film comici, la commedia, il “jewish humor” delle sue origini ebraiche, dall’altra un’ammirazione per il cinema europeo di Bergman, Fellini, Buñuel, che lo spingeva a fare film “seri”, come li chiamava. Qui la sua maturità espressiva e il moralismo dell’età l’hanno portato a considerare che la società è malata: ha bisogno di rimuovere le colpe che commette, altrimenti non riesce ad andare avanti».
A differenza di quanto accade per il tormentato assassino Raskòl’nikov di “Delitto e castigo”, il rimorso abita poco i protagonisti alleniani. «In “Rifkin’s Festival” la posizione di Allen è esplicita: il personaggio commette un errore però, se la giustizia non lo individua, e lui supera la tentazione di confessare il proprio delitto anche cancellando il senso morale, se la cava. L’ex tennista di “Match Point” non paga, così come l’oculista che in “Crimini e misfatti” fa ammazzare l’amante dal fratello. Da una parte c’è la colpa, dall’altra l’istinto di sopravvivenza: Allen si muove a pendolo sopra i due sentimenti».
L’ascendenza da Dostoevskij, nei film, è dichiarata: in “Irrational Man”, per esempio, c’è una scena in cui la protagonista, a casa del professore assassino, trova “Delitto e castigo” aperto. Del resto la scrittura stessa di Dostoevskij, analizza Borin ripercorrendo le pagine del gesto omicida di Raskòl’nikov, aveva già qualità espressamente cinematografiche sebbene venisse trent’anni prima della nascita del cinema stesso, e lo stesso si può dire dell’incipit de “I promessi sposi”. Ma l’autore ha anche un’altra felice intuizione: rileggere il cinema alleniano legato al crimine sul lato della magia, «l’elemento grazie al quale il mago nasconde il proprio trucco: allo stesso modo anche l’assassino, commesso il delitto, nasconde le tracce».
La seconda parte del volume esplora i tratti magici e onirici di molti titoli del regista, non solo i delittuosi “Scoop” e “Match Point”, ma anche “Midnight in Paris” e “Magic in the Moonlight”, fino a “Zelig”, quasi un pamphlet sull’inconscio: «La dimensione del sogno appartiene al comico, sfasato rispetto alla realtà, e Allen non sempre può liberarsi della vena comica», sottolinea Borin. «È davvero il più europeo dei registi statunitensi: nei suoi film c’è la violenza, come in molto cinema americano, però i delitti restano fuori campo e non calca mai la mano sul sangue». —
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