Elio De Capitani «Il mio Nixon che graffia la vita»

di Maria Cristina Vilardo
Lui la chiama “la trilogia dei miei figli di puttana”. Perché dopo Berlusconi nel film “Il Caimano” di Nanni Moretti e per il Teatro dell’Elfo dopo l’avvocato Roy Cohn di “Angels in America” (“Non basta mettere assieme Sindona, Previti e Dell'Utri per avere l’impatto di Roy Cohn in America”), Elio De Capitani dà anima e volto a Richard Nixon. Lo fa duellando in scena con Ferdinando Bruni nel ruolo di David Frost, il celebre anchorman che nel 1977, coniugando politica e giornalismo, affrontò il presidente americano in quattro interviste esclusive sul suo coinvolgimento nello scandalo Watergate. È materia della pluripremiata pièce “Frost/Nixon” del commediografo inglese Peter Morgan, classe ’63, trasformata da Ron Howard nel 2008 in un film di successo. E una bella manciata di premi ha accolto anche la messinscena del Teatro dell’Elfo: De Capitani ha già vinto il Premio Flaiano, il Premio della Critica, il Premio Hystrio e ha quattro nomination ai Premi Ubu.
«La costruzione romanzata di alcune scene - dice Elio De Capitani - non tradisce il senso della storia, ma semplicemente permette di sintetizzare in un’ora e cinquanta di spettacolo una vicenda che copre un arco di sei anni, passando dal giorno delle dimissioni di Nixon, alla feroce trattativa per la firma del contratto con Frost, fino alle interviste e alla confessione finale. La grande intuizione poetica di questo testo, secondo noi che l’abbiamo fatto appassionatissimi, sta proprio in questo».
Frost vide il primo spettacolo?
«A Frost chiesero tutto il materiale autobiografico per costruire la pièce, senza condizionamenti e senza i diritti d’autore. Accettò e quando lo vide in teatro a Londra, fu molto colpito dalla scena, mai accaduta, della telefonata notturna fra Nixon e Frost, dove Nixon rivela la sua frustrazione nascosta, il suo segreto, non capendo che Frost ha un gusto per la vita ben lontano dal suo risentimento. Frost la considerava un po’ l’essenza di quello che lui è riuscito a capire nelle chiacchiere informali prima e dopo le interviste, in quei momenti più rilassati di conversazione in cui venivano fuori le verità del personaggio da piccole cose».
Cosa accomuna Nixon e Frost?
«Sono due persone che vengono da classi basse, hanno salito la scala sociale fino ad arrivare alle grandi università, per vedersi poi sempre guardati dall’alto in basso dall’establishment, dagli snob, dai figli di papà che non hanno faticato per essere dove sono. Nella confessione di Nixon si percepisce un suo rancore sociale, ed è abbastanza sorprendente il fatto che una persona arrivata alle massime cariche sappia di avere dentro di sé un tarlo che rode».
Come nacque lo scoop?
«Grazie a un giovane giornalista arrabbiato, James Reston, che Frost ha avuto l’intuizione di mettere nella sua squadra. Reston ha trovato dei documenti che erano sotto gli occhi di tutti, ma sui quali nessuno era andato a scavare in profondità. Quando tutti avevano mollato l’argomento perché il Watergate era storia e non più cronaca, Jim Reston tenacemente va a cercare e scova uno scoop gigantesco che inchioda Nixon in diretta».
È la resa per Nixon?
«È il colpo finale della corrida che ha steso il toro. Ma Nixon ha un momento di grandezza, perché esce di scena con una confessione totale, quella che non ti aspetteresti mai da un politico, un’ammissione di responsabilità personale che non scarica su nessun altro. È il trionfo di un gran pezzo di storia del giornalismo d’inchiesta, ma con tutta l’ambiguità che segna anche l’inizio del giornalismo-spettacolo. Con quella confessione fatta così spettacolarmente Nixon guadagnerà il 20 per cento sui ricavi. Quindi il dilemma etico è gigantesco. È come la realtà di oggi, è fatta di mille specchi».
Un esempio?
«Qualcuno ricorderà l’intervista di Santoro a Berlusconi. Cioè il bisogno che tutti e due avevano di tornare alla luce del sole, attraverso quella trasmissione che ha dato un altissimo share a Santoro e dei punti in campagna elettorale a Berlusconi. Quest’alleanza fra loro due era visibilissima. A quel punto non erano più avversari, era solo apparenza la fossa dei leoni, in realtà era un’alleanza strepitosa per dare visibilità a entrambi. Servivano uno all’altro. E “”Frost/Nixon è anche questo, a un ben altro livello, certo».
Berlusconi, Roy Cohn e Nixon: dunque una trilogia?
«Lo è, li ho studiati come uomini che hanno dentro diverse caratteristiche del vitalismo della destra, inteso non solo come teoria politica, come estensione antropologica del neoliberismo. Incarnano l’idea, che appartiene molto anche ai grandi personaggi shakespeariani, di prendere la vita e graffiarla col proprio segno, non importa come, anche al di là dell’etica, purché questo segno resti. E sempre coinvolgendo la questione dei due pesi e delle due misure: essere religiosi e conservatori per la plebe e assolutamente rivoluzionari e libertini per la vita privata, che è la sintesi dell’edonismo reganiano. Perché la destra italiana è edonista, non è austera alla Tatcher. E Reagan incarnava abbastanza bene, come modello, questo edonismo».
Anche i giovani, contagiati dai modelli televisivi, sognano di graffiare la vita. Come li vede lei che insegna all’università?
«Molti giovani li vediamo in televisione o in branco per strada, ma non tutti sono fotocopie dello stile televisivo-giornalistico con cui li si descrive normalmente. Ci sono tanti altri che stanno dentro i teatri, i cinema, le biblioteche, dentro i viaggi... Mio figlio ha un gruppo di amici, studenti universitari in materie umanistiche o scientifiche, tutti di un livello culturale altissimo, appassionati di teatro, musica, lirica, con una curiosità apertissima, guardano anche le serie tv perché non sono snob. Ed è molto affascinante sentirli discutere tra loro, sentirli avere posizioni assai avanzate su molti campi, però non vederli mai con un giornale in mano...».
La disturba?
«Una volta l’avrei considerato un fallimento educativo, perché insegnare a leggere il giornale è fondamentale nella trasmissione di un modo di essere. Poi mi sono reso conto che non c’è la possibilità di legarli al giornale, perché hanno altre vie. Del resto io stesso ormai ho tre abbonamenti a quotidiani online, mentre mio figlio ha una serie di siti da cui trae le informazioni necessarie o ascolta la radio. Questo è un cambiamento notevole di paradigma culturale nella vita pratica».
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