Giorgio Montanini: «Vinco da perdente»

Stasera al Miela il dissacrante comico con il suo nuovo monologo: «Dico ciò che il pubblico non osa dire»

TRIESTE. Chi decide di assistere a uno spettacolo di Giorgio Montanini, sa già dall’inizio (o dovrebbe sapere) che verrà insultato, provocato e colpito nel vivo. I suoi monologhi, recitati senza nascondere la cadenza marchigiana, sono vietati ai minori di 18 anni e contengono imprecazioni, non raramente bestemmie e altri tipi di volgarità. Eppure, la violenza dei suoi monologhi non è meramente verbale, ma anche e soprattutto intellettuale. Si parte da un tema e se ne capovolge la prospettiva comune, svelandone le contraddizioni per colpire il pubblico nei suoi nervi scoperti e costringerlo quindi a prendere una posizione. Peculiarità ereditata dalla tradizione decennale della stand-up comedy statunitense (un uomo, un’asta e un microfono a filo) che Montanini ha importato in Italia assieme ai suoi colleghi del programma “Satiriasi”, il cui motto era “La risata è il mezzo, non il fine”. Poi, la conflittuale esperienza nelle reti televisive: dalla Rai, dove si vanta di aver fatto chiudere la copertina satirica di Ballarò e ha condotto per più di due anni il programma “Nemico pubblico”, per arrivare alla seduzione e conseguente abbandono di Mediaset, dopo le prime serate forse giudicate troppo graffianti dai produttori. Adesso, Giorgio Montanini sta portando in giro per l’Italia il suo settimo monologo “Eloquio di un perdente”, in scena questa sera alle 20.30, al teatro Miela.

Un uomo da solo su un palco che fa ridere il pubblico: qual è la differenza tra il cabaret e la stand-up comedy?

«La stand up – risponde Montanini - presume la consapevolezza del comico, il quale parte da se stesso e dalla propria miseria per risalire a quella universale del pubblico. Come per il chitarrista la chitarra è il mezzo per trasmettere le proprie emozioni, così lo stand-up comedian veicola nella risata il suo messaggio tragico di fondo. Se non lo alleggerisse, sarebbe inaccettabile per il pubblico, che lo respingerebbe. Invece, nell’avanspettacolo classico del Dopoguerra, quello di Sordi e Totò, il comico era pur sempre un uomo tragico nel profondo ma che doveva far ridere con leggerezza, dopo il disastro appena vissuto. Oggi si continua a fare quella comicità, che ormai risulta banale e fuori tempo».

Quindi qual è il ruolo attuale del comico?

«Il mio dovere come artista è di dire le cose che il pubblico non sarebbe stato in grado di dire, stando sempre tre passi avanti ma sempre sullo stello livello. Per quanto sia bravo sul palco, il comico nella vita resta un perdente. Basta vedere i titoli dei miei ultimi due spettacoli: “Per quello che vale…” ed “Eloquio di un perdente”. La satira e l’Italia, ieri e oggi. Ieri, c’erano personaggi quali Paolo Villaggio, Corrado Guzzanti e così via. Oggi, invece, Crozza non c’entra più nulla con la satira, così come Gene Gnocchi, e Grillo è stato scambiato per il capo popolo da bar. Per cui, per ora ci sto solo io».

Comicità e politica si sono spesso intrecciati e scambiati tra loro in Italia.

«È un errore culturale oggettivo. In realtà sono in antitesi: il comico sale sul palco per portare il suo punto di vista. Se il pubblico è d’accordo ride e applaude, altrimenti se ne esce dalla sala. Invece, il politico dovrebbe studiare una “ricetta” condivisa per il bene comune. Quando il comico veicola il proprio punto di vista attraverso la politica, è una vera bestemmia culturale».

La sua esperienza tra la Rai e Mediaset: oggi si può fare satira in televisione?

«Si può fare e l’ho fatta per anni. Per me, era impensabile fino a poco tempo fa poter finire in prima serata, come è successo col programma “Nemo”. Però, non c’è ancora una vera accettazione della satira. Meglio così, altrimenti sarebbe stato preoccupante, perché allora significherebbe che non avrei fatto abbastanza. Sto spianando la strada per i prossimi che verranno. È un onere e un onore. “L’impero di Zelig” è finalmente crollato, quindi i tempi sono più che maturi per questa nuova comicità».

Se dovesse prendere spunto da Trieste su cosa costruirebbe un monologo?

«Ho saputo di un exploit di un assessore sulla “befana italiana”. Talmente paradossale da non riuscire a trarne battute o sintesi comiche. Nel 2018, ci sono valori che l’evoluzione umana ha già catalogato e che non ci dovrebbero più essere. I cittadini dovrebbero avere gli strumenti per superarli da soli, senza l’intervento del comico. Dopodiché, ho sentito che a Trieste c’è una certa cultura alcolica: i sobri hanno sempre qualcosa da nascondere, quindi dei triestini non posso che fidarmi».

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