Il corpo ebreo sullo schermo Spanu ne parla alla Stazione Rogers
C’è un elemento che, pur centrale nel sistema delle rappresentazioni, vive una vera e propria crisi: è il corpo, nella fattispecie quello ebreo, spesso stereotipato, negato o spersonalizzato. A indagare il tema è il volume “Il ‘corpo ebreo’ nel post Shoah” (edizioni Eut) di Massimiliano Spanu, professore di Teorie e Tecniche del Linguaggio Cinematografico per l’Università degli Studi di Trieste presso il Dams di Gorizia. Il libro sarà presentato oggi alla Stazione Rogers alle 18.
«Il corpo ebreo è sempre meno identitario», spiega Spanu. «In un’epoca di derealizzazione dei corpi, del corpo ebreo rimane solo l’immagine, come dimostrano gli ultimi film sull’argomento. I luoghi dell’Olocausto diventano meta di gita e di turismo del divertimento. Va premiato lo sforzo di autori come Steven Spielberg che con le sue Fondazioni, interpellando i testimoni del massacro, cerca di preservare la memoria e la carne dei loro corpi sempre più rimossi».
Il libro affronta anche il dibattito storico sulla non facile rappresentabilità dell’Olocausto. «Le critiche investono anche titoli straordinari come “Il figlio di Saul” di László Nemes, Premio Oscar come miglior film straniero», dice Spanu. «Il film è stato oggetto di discussione anche feroce perché il protagonista è uno degli ebrei che nei campi di concentramento conducevano le vittime alle docce di gas, che raccoglievano i cadaveri, che insomma, costretti, lavoravano per le SS. La scelta è provocatoria ma perfetta: il corpo di Saul è un “corpo specchio” perché ormai ha perso ogni connotazione di vita, esegue supinamente. E quindi, attraverso le soggettive del suo sguardo, ci consente l’immedesimazione nella realtà infernale di Auschwitz».
C’è poi un problema di veridicità e veridizione che investe il corpo ebreo e non solo. Il volume cita alcuni titoli tra i più popolari, come “Bastardi senza gloria” di Quentin Tarantino e “La vita è bella” di Roberto Benigni. «Quello di Tarantino è un film che suggerisce una soluzione dell’evento bellico, ovvero lo sterminio di Hitler e dei gerarchi nazisti in un cinema, che ovviamente non corrisponde alla Storia. Ma qui l’ebreo, interpretato da Eli Roth, è un corpo terribile e trionfante, una specie di Golem che incarna inconsapevolmente lo stereotipo fondativo dei giovani miti della nazione Israele post Shoah: è muscolato, oscuro e temibile. “La vita è bella” invece è una favola adulta, in parte pensata per i bambini, che si conclude con una vera falsificazione: la liberazione di un campo di concentramento da parte di truppe americane, laddove lo stesso fu liberato dai sovietici». —
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