Il giovane Stalin a Venezia sulle sue tracce nasce un itinerario del cuore

la recensione
Le avventure accadono a chi le sa raccontare. E quella che Emanuele Termini riporta nel suo "L'acqua alta e i denti del lupo. Josif Dzugasvili a Venezia" (Exorma, pagg. 188, euro 15) è un'avventura agganciata a un doppio scoop, ancorché anomalo.
Immerso tra faldoni odorosi di muffa e laguna de "L'Adriatico" e "La Difesa", quotidiani dell'inizio del secolo scorso dediti prevalentemente alla cronaca, il ricercatore friulano scorre le friabili pagine dei mesi febbraio-aprile del 1907, mani infilate in guanti di lattice, nell'archivio storico di Santa Maria dei Frari. Da qualche tempo è sulle tracce di Josif Dzugasvili, noto come Stalin, che ha trascorso una manciata di giorni a Venezia prima di raggiungere forse Lenin, forse a Ginevra, forse a Berlino.
Una serie di "forse" piantati nella sabbia come lo è questa città anfibia di cui l'indagine di Termini rappresenta innanzi tutto l'abbraccio di un innamorato.
Molti indizi, nessuna prova provata che il ventinovenne rivoluzionario Josif-Soso-Koba-David-Ivanovic, infine Stalin, despota di tutte le Russie sovietiche, sia stato ospite nell'isola di San Lazzaro degli Armeni, l'unico angolo in cui lui, georgiano con studi nel seminario ortodosso di Tibilisi, poteva farsi capire, edotto a puntino su riti e lingua dei monaci.
Anche loro, sorridenti ma ermetici, tentano di contribuire all'investigazione partita dal ritrovamento di un articolo giornalistico di tale Gustavo Traglia, uscito nel 1957, a cui fa accenno in una pagina Alberto Toso Fei, esperto di passato veneziano, leggende e misteri.
Poco per entrare nella storia, molto per scatenare la fantasia accesa da una Venezia, quella di Termini, assorta nel proprio incanto, rispecchiata nelle foto d'epoca che puntellano il libro; Venezia che fu ma può ancora essere, lasciando agli stolidi quella cinica della paccottiglia, tra un kebab e una frittura che era fresca al tempo dei Dogi.
Il friulano, con cura affettuosa la restituisce a se stessa, seguendo l'intuito e qualche virgilio locale, stupefatto e mai pago degli anfratti che svoltato l'angolo si aprono in campi e campielli per poi richiudersi pudicamente in una calle. Sembra quasi un pretesto quello di cercare le orme di Stalin a Venezia, perché Termini finisce per comporre un'alternativa guida di itinerari, che davvero dà la parola ai senza potere, ai palazzi e alle bellezze impietrite al cospetto dei mostri marini che la lambiscono.
Il mostro umano, Stalin, è in fuga perenne, per mari e per terre. E' la sua specialità. Attraverso tutta la carriera rivoluzionaria anteriore al 1917, per circa vent'anni, organizza rapine ma fa tappezzeria alle riunioni di partito passando per l'utile idiota: mezzo brigante, mezzo guerriero, scaltro, duro, paziente, vendicativo. Prima di diventare il carceriere della Russia, esercita prudenza e temperanza. Difficile dare credito al trafiletto che accenna a un georgiano arrestato per ubriachezza molesta in una casa di malaffare a San Samuele. Ma trovano riscontro il suo viaggio da Odessa ad Ancona, la copertura di anarchici locali, infine il transito per la città lagunare. Un input che se piace a Termini, tanto più stimolò Hugo Pratt che nelle tavole di "La Casa Dorata di Samarcanda" farà salvare Corto Maltese da 'Bepi del giasso', ovvero Stalin, e insieme rievocheranno il soggiorno nell'isola degli Armeni e il suo compito di campanaro.
I monaci mechitaristi non abbandonano il sorriso ermetico: forse, ma di Stalin non c'è traccia. Nel monastero trovavano asilo solo novizi e personalità eminenti. Come questa storia, molte calli a Venezia si rivelano essere un vicolo cieco e terminano a sorpresa in un canale. Eppure non si va mai tanto lontano come quando non si sa più dove si va, e il viaggio attraverso le pagine di Emanuele Termini è un gran bell'andare. —
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