Il regista Marco Risi presenta a Gorizia il suo nuovo film “Il punto di rugiada”

Appuntamento venerdì al Kinemax 

Gian Paolo Polesini
Il regista Marco Risi, venerdì a Gorizia con il film “Il punto di rugiada” Foto Archivio Agf
Il regista Marco Risi, venerdì a Gorizia con il film “Il punto di rugiada” Foto Archivio Agf

GORIZIA Un film — “Il punto di rugiada” — assai vicino alla buona celluloide di papà Dino in quanto a raffinatezza, eleganza e con quel dosaggio di sorriso che rilascia ottima dopamina (quando l’essere umano è contento entra in scena lei). È Marco Risi a firmare l’opera dopo una sospensione di ben oltre un decennio.

«A Pordenone — ricorda il regista di “Mary per sempre” e di “Fortapàsc” — conobbi lo scrittore Enrico Galiano. Mi svelò che lui fece il servizio civile in una casa di riposo. Il soggetto girò nella mia testa per anni e, finalmente, si concretizzò al termine di una clausura di un mese in un appartamento con un gruppo di sceneggiatori».

Due giovani sbandati e un gruppo compatto di signore e signori molto maturi convivono in una lussuosa villa dove la terza età è trattata come Dio comanda. «Ne ho viste di residenze belle e di residenze deprimenti — ricorda Marco — tutto dipende se hai denaro oppure no».

Sarà lo stesso Risi a presentare al pubblico il suo lungometraggio: venerdì alle 20 al Kinemax di Gorizia e, al termine della proiezione delle 21, al Cinemazero di Pordenone.

Il punto di rugiada ha un significato scientifico ben preciso. Ce lo spiega?

«In parole semplici è l’incontro fra l’aria fredda e quella calda a provocare la rugiada. La mia storia vive sullo stesso principio, ovvero una casuale mescolanza di gioventù altezzosa, costretta a offrire i propri servigi per scontare una pena, e di vecchiaia ordinata. Mentre stavamo scrivendo la sceneggiatura, in un ristorante incrociai un simpatico pianista che aveva ambizioni da meteorologo. A un certo punto gli dissi: “Bella giornata, oggi”. E lui: “Già, però sono un po’ preoccupato per il punto di rugiada”. Senza volerlo quell’uomo mi consegnò il titolo».

I ragazzi e gli anziani di oggi: mondi che non s’incontreranno mai. Un tempo, invece, c’erano rispetto e soggezione.

«A volte “loro” ci ignorano completamente, a noi attempati. La nostra generazione ascoltava molto e assorbiva insegnamenti. Oddio, certi nonni hanno anche ora un discreto Auditel, ma il contemporaneo impone strade diverse».

Ora, senza svelare troppo, ma lei semina speranza e fa bene a farlo.

«Cerco di esaltare il contatto fra le persone. Alziamo ogni tanto la testa dal cellulare e guardiamo in faccia il prossimo: è un gesto bellissimo che fa sempre accadere cose».

Questo cinema è molto vicino a quel cinema là, quello affascinante del Novecento.

«Mi piacerebbe che la gente se ne accorgesse. Non cerco né i ritmi forsennati e né tanto meno le battutacce, racconto sentimenti, esistenze, intrecci impossibili con uno sguardo disincantato».

Com’è stata la vita con suo padre Dino?

«Un genitore ingombrante, certo, ma divertente, mai severo nell’educazione, ma nei giudizi tantissimo. M’insegnò una serie di regole che ho scolpito in testa: saper ascoltare e intervenire al momento giusto, essere capaci di attirare l’attenzione e, soprattutto, avere la capacità di sintesi. Ogni tanto mi dilungavo nel racconto e lui mi bloccava, dicendomi: va bene, e qual è il titolo? Era un critico feroce, altro che Mereghetti!».

Che diceva del suo cinematografo?

«Si complimentò per “Mary per sempre”».

C’è un film di Dino che lei riguarda più spesso di altri?

«Eccome no, lui… “Il sorpasso”. È un concentrato di tutto: in due giorni è spiegata l’Italia dei Sessanta. Non solo: là dentro ci sono la fine dell’età dell’innocenza e l’inizio di quella dei soprusi».

Che ne dice de “L’ombrellone”, il Sapore di mare ante litteram?

«Fu scritto in cinque giorni. Papà aveva fretta di andarsene da Roma e trasferirsi con una sua amica sul set di Riccione. Avrei tanto voluto avere Sandra Milo (la Giuliana del film, ndr) in “Il punto di rugiada”, ma si ammalò di Covid. Non un grandissimo Enrico Maria Salerno, ma un bravissimo Lelio Luttazzi».

I Cinquanta e seguenti: artisticamente irripetibili. Che avevano di così speciale quegli anni?

«Quella fu una generazione fantastica, spinta in alto dall’entusiasmo della rinascita alla fine della guerra: grandi sceneggiatori, grandi registi, grandi produttori, grandi attori».

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