Italiani due volte, per nascita e per scelta voci dei sopravvissuti alla tragedia dell’esodo

Il giornalista Dino Messina dedica un’inchiesta alle vicende del confine orientale, iniziando il reportage dal Magazzino 18 

la recensione



A pochi giorni dalla Giornata del ricordo il giornalista del Corriere della Sera Dino Messina dedica alle vicende del confine orientale ‘Italiani due volte’ (Solferino 260 pagg., 16,50 euro). Un’inchiesta – non un saggio storico, chiarisce l’autore - che fa parlare in prima persona molti di quelli che sono ancora in vita, o i famigliari di chi non c’è più, e che hanno vissuto in prima persona le foibe e l’esodo giuliano dalmata. Altre testimonianze prendono vita da diari, relazioni o altre pubblicazioni date alle stampe nel corso degli anni.

Come fosse un vero e proprio reportage, Messina inizia il suo racconto da un luogo emblematico come il magazzino 18 del porto Vecchio di Trieste, ‘la nostra Pompei’, secondo la definizione di Piero Delbello, presidente dell’Irci, sorta di Virgilio che guida Messina all’incontro con le tante storie che attendono solo qualcuno disposto ad ascoltare. C’è per esempio la vicenda di Franco Luxardo, nato nel 1936 a Zara, dove la famiglia aveva la nota industria di liquori e che da Aquileia, dove aveva trovato rifugio nel 1943, assistette alla diaspora dei suoi cari. Dalla Dresda d’Italia, come l’aveva definita lo spalatino Enzo Bettiza, quasi rasa al suolo dagli immani bombardamenti che si rovesciarono sulla città, una parte dei Luxardo riuscì a mettersi in salvo raggiungendo in barca Lussino, ma gli zii di Franco, Pietro e Nicolò, non riuscirono a scampare ai partigiani di Tito.

Messina, giornalista di formazione storica - è laureato in storia contemporanea – attingendo a un ricco apparato bibliografico (nel quale, va detto per completezza, non compaiono i nomi di quegli storici accademici, come Joze Pirjevec, che sostengono posizioni di minoranza rispetto alla vulgata corrente) ha inquadrato questo dramma nazionale in un ampio periodo che inizia nella metà dell’Ottocento e lo ha diviso in tre grandi atti.

Il primo, con l’irredentismo, la vittoria nella Grande guerra, il passaggio all’Italia di regioni e città sotto il dominio asburgico, seguito dalla presa del potere del fascismo, che in particolare in queste terre di confine diventa violento e oppressore. La seconda fase con le ondate di violenza dei partigiani di Tito nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945. Trieste, Pola e i centri dell’Istria occidentale, Fiume e Zara, da province irredente divennero terre di conquista jugoslava. Al biennio di terrore e alla stagione delle foibe, seguirono altri anni di pressioni e paura. Sino al terzo atto, dal 10 febbraio 1947, che segnò la più grande ondata dell’esodo e che rivelò ai profughi l’inatteso dileggio e il risentimento di parte degli altri italiani.

Ostilità e pregiudizi. Racconta Roberto Predolin, che è stato assessore della giunta Albertini, che un professore di liceo, saputo delle sue origini istriane, lo interrogò in slavo. Per anni il trauma dell’esodo è stato rimosso dagli stessi profughi. «Ho cominciato a prendere coscienza di quello che sono stata solo nel 1997», dice Fiore Filippaz, che racconta gli stenti provati nel campo di Padriciano, le baracche di legno, il freddo che si portò via la sorella Marinella nel 1956. Una voce giunge dalla Sardegna, è quella di Marisa Brugna che nel 2002 raccontò in un libro le sue vicissitudini di profuga.

Messina ha cucito assieme un vasto racconto polifonico, dove sembra che a turno qualcuno si alzi da una delle sedie abbandonate nel magazzino 18 e prenda la parola. C’è chi nell’anarchia dei giorni successivi all’8 settembre 1943 ha visto uno dei suoi cari prelevato dai partigiani titini e condotto via per un viaggio senza ritorno; come Norma Cossetto, quasi un caso esemplare il suo, che è stato scelto a soggetto per il film “Rosso Istria”.

Argomenti ben noti in queste terre, ma a lungo sconosciuti nel resto d’Italia, per motivi che Messina riassume nei capitoli finali del libro. Il lungo incaglio politico causato dal dopoguerra diviso in blocchi ha generato contrapposizioni che hanno ostacolato una equilibrata disamina complessiva. Ma da un po’ le cose sono cambiate. I testi scolastici, buona cartina di tornasole, che fino a pochi anni fa non citavano le foibe, ora si aprono ai contributi degli storici locali come Raoul Pupo e Roberto Spazzali. Per contro, merita leggere la vicenda kafkiana della medaglia al gonfalone di Zara, che è lì che aspetta da vent’anni perché, tra riscritture e limature, ancora non ci si riesce ad accordare sulla motivazione. —

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