La cinepresa di Francesco Penco in un’atmosfera che non vibra
Luigi Ruzzier, segretario del Sindacato fascista degli avvocati e dal 1938 podestà di Trieste, la mattina del 10 giugno 1940 –un lunedì– scese dal letto di umore cupo. Poche ore più tardi avrebbe dovuto partecipare in piazza dell’Unità alla grande manifestazione in cui gli altoparlanti della “RadioMarelli” avrebbero diffuso il discorso che il duce avrebbe pronunciato alle 18 dal fatidico balcone di piazza Venezia, l’entrata in guerra dell’Italia. A fianco della Germania hitleriana. Anche lui, Luigi Ruzzier, sarebbe stato in una posizione che sovrastava la folla chiamata a quell’adunata storica. Avrebbe visto ogni dettaglio– cartelli e striscioni, movimenti di questo o quel gruppo in divisa: li avrebbe guardati dall’alto della loggia che occupa la facciata della Prefettura. Con lui gerarchi, generali, dignitari del regime e una delegazione germanica con tanto di svastica al braccio. Ruzzier non riusciva a scacciare il pensiero che lo attanagliava dal momento in cui non aveva avuto più alcun dubbio sull’imminente dichiarazione di guerra alla Francia e alla Inghilterra. “Una guerra dinamica, rapida, qualitativa” aveva scritto il 5 giugno il Ministro della Cultura popolare Alessandro Pavolini in un articolo pubblicato sulla totalità dei giornali italiani. Molti gli avevano creduto. Altri pur dubbiosi non avevano manifestato nemmeno in famiglia le loro perplessità. Il 6 maggio, poco più di un mese prima era stata varata la legge 577 che introduceva nel nostro ordinamento il razionamento dei consumi attuato attraverso la distribuzione di carte annonarie. Sarebbe di lì a poco seguito il divieto di vendita del caffè, l’obbligo della presenza sui banchi dei forni di un’unica qualità di pane, il blocco delle vendite di pasticceria fresca e gelati nei giorni di martedì, mercoledì, giovedì e venerdì. Anche la carne era stata contingentata fin dal settembre del 1939 quando le armate naziste avevano invaso la Polonia. Queste restrizioni che sarebbero via via aumentate nel corso della guerra, al momento non preoccupavano Luigi Ruzzier. Altri erano i problemi. In quelle ore 214 navi italiane con una stazza lorda superiore alle 1000 tonnellate erano lontanissime dai nostri porti. Non li avrebbero mai raggiunti in tempo nonostante il telegramma inviato il 4 giugno dai vertici della Marina mercantile. Trentanove piroscafi si autoaffondarono nelle ore successive alla dichiarazione di guerra; 47 furono catturati e finirono malconci nelle mani del nemico. Qualche comandante tentò disperatamente di rientrare in Italia forzando i blocchi nemici e gli internamenti nei porti neutrali, ma con scarsa fortuna. I grandi transatlantici erano già fermi, costretti al disarmo e a una futura conversione in trasporti di guerra. Erano bloccati il Rex dal 18 maggio a Genova, il Conte di Savoia aveva concluso a Napoli il 9 giugno la sua ultima traversata atlantica. La motonave Victoria sarebbe stata requisita 18 dicembre 1942 dopo un lungo periodo di disarmo. Ferme in banchina anche Saturnia e Vulcania. Non erano notizie favorevoli, come non erano favorevoli le cifre della mobilitazione. Ruzzier le aveva ben impresse nella mente: nelle settimane precedenti erano stati richiamati nelle caserme un milione e 630 mila soldati di truppa: i magazzini erano stati svuotati dalla guerra di Spagna e di Etiopia, l’addestramento era approssimativo, le armi antiquate. Gli ufficiali richiamati erano stati 53 mila, gli aviatori 84 mila con soli 1796 aeroplani, almeno la metà inefficienti.
Ma la piazza dell’Unità in quel lunedì di giugno si riempì come mostrano le immagini ricavate da un filmato realizzato da Francesco Penco. Un pieno assoluto, zeppo di cartelli che inneggiavano al Duce e Hitler e che pretendevano l’annessione di Gibuti, della Corsica, di Tunisi dell’isola di Malta. , “La Savoia all’Italia”, “Viva il Re e Imperatore”, “Suez è la porta di casa nostra”. I cartelli e gli striscioni ondeggiavano e dall’alto Ruzzier e gli altri gerarchi e militari percepivano qualcosa di strano. I numeri erano numeri, ma tranne qualche piccolo gruppo di universitari, l’entusiasmo mancava, l’aria e il cielo non vibravano, come avevano vibrato nella stessa piazza nel settembre del 1938 all’annuncio delle leggi razziste. Qualcosa nel fascismo il 10 giugno 1940 aveva cominciato a rompersi e Ruzzier nonostante gli stivaloni, la divisa d’orbace, il braccio teso e la vicinanza del console nazista con la svastica allora trionfante in Francia, lo aveva percepito. –
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