“La donna del mare” dipinta da Carlo Sbisà si era nascosta a Tbilisi

di Fabio Cescutti
È un ragazzo del '99 risparmiato dalla guerra con la divisa dell'esercito austro-ungarico grazie al professore che gli trova impiego come disegnatore tecnico ai cantieri navali di Monfalcone. Carlo Sbisà viene poi trasferito a Budapest e deve vita e fortuna artistica alle mani che, simili alla brezza, soffiavano leggere su carta e tela lasciando nel segno della matita e del colore a olio donne misteriose solamente per chi, al contrario di lui, non ne intuiva la profonda dolcezza. La moglie Mirella Schott ricorda un attacco di malaria che in quel periodo gli impedì di partire per l'Italia e arruolarsi. Era pronta una barca - le aveva raccontato Carlo - nella quale trovarono posto alcuni amici. Così il suo destino non fu quello di imbracciare un fucile. Ma di usare le mani come Apelle, il pittore preferito di Alessandro Magno, sapendo bene quando toglierle dal quadro. La sua forma ideale di bellezza non era convulsa. Lui eletto da Dio per illuminare gli uomini guardava a Firenze, luogo dove assaporare l'eterna giovinezza dell'arte cui i suoi capolavori ci rimandano.
A cinquant'anni dalla morte (Trieste 1899-1964) una riflessione articolata delinea la complessità di un artista che è stato pittore, scultore e ceramista. Percorso che solo i grandi portano a termine. Ne citiamo uno: Lucio Fontana. La Biennale del 1948 dove Sbisà è presente in tutti e tre i campi, è quindi importante nella rilettura di una vita spesa alla continua ricerca della perfezione. Quella che giustamente trova l'apoteosi nelle Veneri del Ventennio, figure fra Realismo magico e Novecento. Ecco l'amica Lolò, la giovane Leonor Fini che in Magia del 1928 guarda in alto e soffia alla Luna o a una piuma, o la Venere della Scaletta che coniuga la maniera più libera dell'amico Felice Carena e le prospettive novecentiste. E poi Felicita Frai disegnatrice pensierosa e malinconica nell'opera del 1930 con gli strumenti di lavoro sul tavolo, la scultura classica nella nicchia e l'immancabile scorcio dalla finestra. Infine Mirella Schott nel ritratto intimo del 1946, l'allieva pittrice diventata moglie.
Vania Gransinigh conservatrice a Casa Cavazzini ha firmato il sedicesimo volume della Fondazione CRTrieste dedicato a Sbisà in occasione del cinquantesimo dalla scomparsa. E Giuseppe Pavanello direttore della collana d'arte ne elogia competenza e passione sottolineando la cura con cui il libro è stato impaginato.
La scoperta de "La donna del mare" ritrovata a Tbilisi (Georgian National Museum, Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts) grazie alla collaborazione di Irina Artemieva dell'Ermitage di San Pietroburgo rappresenta una novità assoluta. Il catalogo degli oli si arricchisce con il notevole Ritratto di signora del 1923 passato recentemente alla casa d'aste Stadion, un ritratto del padre del 1920 presentato nel convegno del maggio scorso e altre opere inquadrate criticamente mettendo insieme osservazioni che dovevano trovare un "trait d'union". La stessa Gransinigh osserva che la pubblicazione di tutti i disegni censiti avrebbe richiesto un ulteriore volume. . In questo senso soccorre il catalogo della mostra udinese del 2013 Afro e Sbisà, la decorazione murale negli Anni Trenta curata dalla Gransinigh e da Massimo De Grassi che ha accompagnato la donazione dei cartoni degli affreschi di Galleria Protti ai Musei civici di Udine. E la pubblicazione degli atti del convegno (Eut - Edizioni università di Trieste, euro 35) voluto da De Grassi e il Soprintendente Luca Caburlotto, un vero e proprio libro dove scultura e ceramica trovano ampio spazio. E che Nico Stringa nel volume della Fondazione riassume nella parte finale.
Per ricordare l'importanza della scultura in Sbisà va segnalato che il Ritratto di giovane donna esposto alla Biennale del 1950 fa parte delle collezioni del Quirinale. Tutto questo ci può far riflettere sul fatto che il Museo Revoltella del quale Sbisà è stato curatore, potrebbe offrire una panoramica nuova sull'attività del maestro dopo la mostra del 1996 limitata alla pittura fino al 1945.
La copertina del catalogo della Fondazione è dedicata a L'Erborista (1942) di proprietà dell'ente. Il ritratto di Alice Psacaropulo inizialmente doveva rappresentare la Giustizia. Mirella ricorda quando Carlo ridendo disse "questa non ha faccia e tono di giustizia". Erano i suoi ripensamenti visto che con matita e pennelli difficilmente ne aveva.
La Gransinigh sostiene l'importanza del periodo fiorentino, quello dell'Accademia, delle visite ai musei, dei disegni nei caffé e per strada, delle incisioni, delle prime importanti tele e delle amicizie come quella con Giannino Marchig arrivato in città nel 1915. Nessun pericolo di "passare da una situazione culturale periferica come quella triestina a certo provincialismo strapaesano". È quanto aveva invece affermato Renato Barilli nel saggio del 1996. La Milano di Margherita Sarfatti, culla di Novecento, dove in quegli anni aveva casa Piero Marussig, avrebbe potuto forse dare più slancio a un giovane di grande talento quale lui era. Opinioni diverse. È il sale della critica d'arte.
Sbisà arriva a Firenze nel 1919 e sostanzialmente rimane fino al 1928 quando rientra a Trieste con una personale alla Galleria Michelazzi, presentata nel pieghevole da Italo Svevo. Nel lungo viaggio ha il continuo sostegno di Silvio Benco mentre Manlio Malabotta si distacca con l'accentuarsi della scelta neoclassica che culmina negli affreschi degli anni Trenta. Il Palombaro del 1931 che ritrae l'architetto Umberto Nordio segna uno degli apici della pittura di Carlo e l'amico che guarda dentro la finestra rappresenta forse la fine del suo Novecento maturo e per certi aspetti irripetibile.
A Milano dal 1929 al '31 insieme a Leonor Fini e Arturo Nathan non gli manca il sostegno di Carlo Carrà. Partecipa alla II Mostra di Novecento italiano alla Permanente, ma il movimento non ha più una poetica comune. Nathan viene immortalato nel '32 con Il motociclista e negli Astronomi del '36 entrambi esposti nell'infinito rapporto con le Biennali veneziane.
Nell'ultima mostra a Milano del '45 Sergio Solmi lo stronca mentre Raffaele De Grada è più indulgente. Così al contrario di Arturo Martini la scultura per Sbisà non sarà lingua morta, ma una nuova terra dove fioriscono ceramiche d'ispirazione cubista firmate CSM insieme alla moglie Mirella. La stessa sua ultima pittura volta pagina nel '47 alla Galleria Sant'Agostino di Roma e alla triestina San Giusto. I volumi cambiano. Decio Gioseffi intuisce che Sbisà diventa scultore per rimanere il pittore che era. Neoclassico per sempre.
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