La filosofia della corsa: abbandonare l’attitudine a ostentazione e accumulo



È mia profonda convinzione che gli atleti siano suddividibili in due macro-categorie: quelli molto stupidi e quelli molto intelligenti. O per meglio dire l’equilibrio psico-fisico e neuro-muscolare che caratterizzano il semplice atleta o lo stesso campione, non necessariamente comportano una consapevolezza del significato profondo del gesto, del valore simbolico e cognitivo che esso assume sia per chi lo compie, che di riflesso per chi lo guarda. Spesso dunque – e non ha importanza il valore della prestazione – una sorta di appannamento, di involucro di ottusità ci impedisce di andare a fondo sul perché del gesto, dello sforzo, di quell’apparentemente sterile esercizio di fatica. Ci fermiamo prima al piacere che ne deriva, talvolta agli aspetti esteriori che lo accompagnano, quasi che andare ‘oltre’ richiedesse un altro tipo di fatica e forse ci spaventasse. Naturalmente ciò vale in particolar modo per la corsa di lunga distanza, questo fenomeno dei tempi moderni ad un tempo semplice e – come vedremo – complesso, che tende ad investire un numero sempre maggiore di persone i cosiddetti runners.

Claudio Bagnasco in un suo recentissimo libretto Runningsofia – Filosofia della corsa edito da “Il melangolo” in cento pagine scarse si sofferma proprio su questi due momenti, con una prima parte dedicata alla ‘Pratica della corsa’ e una seconda chiamata ‘La mistica della corsa’.

Il primo passaggio dunque si sofferma sul come, sul perché, sul cosa ci restituisce la corsa, il secondo va ‘oltre’ alla ricerca dell’inafferrabile significato che l’arte di correre a piedi comporta, un po’ come fece Ungaretti con la sua prima folgorante raccolta di poesie Il porto sepolto. Egualmente ‘folgoranti’ sono le quaranta smilze paginette dedicate alla ‘mistica’ e valgono tutto, penso molto di più di quanto pubblicato finora sull’argomento.

Probabilmente Bagnasco non lo sa – in fondo è un corridore – ma in quest’ultimo fondamentale miglio sfiora le radici, i fantasmi profondi, i precipizi e gli inganni che come tutte le attività umane, anche il correre comporta. Non credo che abbia senso parlarne qui. Perché dovremmo farlo, anticipando il gusto di una scoperta che ciascun lettore è chiamato ad inseguire da solo?! Basti a chi vorrà inoltrarsi nel lavoro di Bagnasco questa brevissima citazione: “Non c’è guadagno nella corsa. L’attitudine al guadagno, all’accumulo, alla collezione, caratterizzano semmai l’uomo inserito in una società – la nostra – che quasi impone da un lato di esporsi, esibirsi, e dall’altro di sciorinare competenze, conquiste, capacità di costante aggiornamento e fulmineo adattamento. Ecco: correre significa, in modo più o meno conscio, abbandonare queste attitudini”.

Chiarito ciò che la corsa ‘non è’ a voi lettori scoprire cosa può essere, senza dimenticare che uno dei momenti germinali del correre le grandi distanze, ha trovato i primi interpreti proprio qui dalle nostre parti, fra le pietre e i sentieri del Carso triestino. —

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