La fine della Federazione regala alla vecchia Europa gli Stati di Slovenia e Croazia

A complicare il quadro arrivò anche il presidente Cossiga con l’ipotesi del ritiro dell’Armata attraverso Trieste
Mauro Manzin



Slovenia e Croazia sono ufficialmente due nuovi Stati in Europa, riconosciuti dai Dodici della Comunità europea grazie alla fuga in avanti della Germania con Kohl e seguita dall’Italia spinta dal Vaticano.

Ma se il ministro degli Esteri sloveno Dimitri Rupel quel 15 gennaio del 1992 brindava a villa Podrožnik di prima mattina con l’ambasciatore tedesco, in serata dopo laceranti discussioni alla commissione Esteri del Parlamento con i rappresentanti della minoranza slovena in Italia che chiedeva la reciprocità di trattamento delle rispettive minoranze, Rupel, sempre lui, se ne andava sbattendo la porta. Il governo di Lubiana non firmò un protocollo d’intesa con Roma e tutti i rapporti bilaterali furono per ore sul filo del rasoio, fino al rischio rottura. Poi si rinviò il tutto alla solita commissione di studio e il tema venne congelato e così il povero console Cristiani poté presentare le sue credenziali.

E mentre la lava della polemica colava sul confine e i vari agitprop iniziavano a lavorare, noi giornalisti riempivamo d’inchiostro le prime righe della Pagina dell’Istria, Litorale e Quarnero. Ma se la Slovenia aveva in pratica finito la sua guerra dei dieci giorni, per la Croazia iniziava quella con Serbia e musulmani della Bosnia-Erzegovina. Una guerra che non ci aveva colti impreparati avendola pronosticata mesi prima del suo eruttare violento e cruento. In quelle settimane la redazione era giornalmente invasa dagli inviati dei principali giornali italiani che cercavano di capire che cosa stesse succedendo. Molti confondevano la Slavonia con la Slovenia, ma il vero problema è che a qualsiasi loro domanda sul tema jugoslavo le nostre risposte non erano e non potevano essere sì o no, bensì erano sempre sì, ma... oppure no, ma... e quei ma li mettevano in difficoltà. E così dalla redazione alle zone di guerra e ritorno diventava anche il nostro percorso professionale più battuto.

A complicare poi le cose dell’esordio istriano ci fu anche il vulcanico presidente della Repubblica Francesco Cossiga che a Trieste, dicasi a Trieste, annunciò che la ritirata dalla Slovenia di carri armati e uomini dell’esercito dell’Armata popolare di Jugoslavia sarebbe avvenuta attraverso la città e il suo porto. Alla nostra domanda in piazza dell’Unità d’Italia a sera inoltrata se ne fosse proprio sicuro ci guardò stupito: «Ma mi crede pazzo?». Trattenemmo un sì molto a stento. Intanto il Delo, quotidiano di Lubiana uscì in prima pagina con una vignetta del caricaturista Franco Juri (della minoranza italiana in Slovenia) dove dei tank jugoslavi guardavano dal Carso verso Trieste e il capocarro annunciava nel fumetto: «Ehi ragazzi si torna in Ponterosso...» ricordando il grande flusso jugoslavo a Trieste negli anni Settanta e Ottanta per l’acquisto dei jeans sulle bancarelle proprio di Ponterosso.

Ma nelle nostre prime colonne e inchieste ci concentravamo soprattutto sul futuro della minoranza italiana in Istria che aveva perso la sua unitarietà, tagliata in due dal confine tra Slovenia e Croazia. Gli incontri a Capodistria o a Fiume in un aria maledettamente clandestina, nei fumosi bar balcanici, con l’allora presidente della giunta esecutiva dell’Unione Italiana Maurizio Tremul. Ore di disagio e paure, di strane figure che ti seguivano ovunque, sicure che tu non le avessi notate. E poi amici dell’ambasciata francese a Zagabria che ti dicono: «Stai attento, sei finito nella lista nera di Tudjman (primo presidente della Croazia indipendente, ndr).

E ancora i fiumi di profughi che scappano dalle zone distrutte dai combattimenti in Bosnia e in Slavonia (non Slovenia), su quei treni pieni di storie che si ammassavano sui binari della stazione di Zagabria, dietro l’hotel Esplanade desueto luogo di ristoro per chi viaggiava sull’Orient Express. Ma quelli non erano i migranti di oggi, loro nelle loro case volevano farci ritorno. Ad ogni costo. —

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