L’Afghanistan in ottomila ore di film mai visti

VENEZIA. Nei tg e sulla stampa occidentali il "conflitto afghano" è stato ormai derubricato a un fastidioso rumore di fondo, come molte guerre a Oriente. Da quasi un quindicennio, cioè da quando...
Di Roberto Pugliese

VENEZIA. Nei tg e sulla stampa occidentali il "conflitto afghano" è stato ormai derubricato a un fastidioso rumore di fondo, come molte guerre a Oriente. Da quasi un quindicennio, cioè da quando George W. Bush ne decise l'invasione dopo l'11 settembre con l'operazione dal risibile nome di "Enduring Freedom" (Libertà duratura) l'Afghanistan è invece un paese sconvolto e instabile, dai contraccolpi imprevedibili, ostaggio del terrorismo talebano e nel quale truppe straniere pagano spesso prezzi altissimi nel tentativo di garantire una parvenza di pace.

Fedele alla propria vocazione di specchio critico dei conflitti sparsi sul pianeta, anche nella 72° Mostra un terzetto di film focalizza il dramma epocale, ma anche le speranze, di questa lontana e martoriata terra.

In Orizzonti, "Man down", dello scrittore-musicista-regista newyorkese Dito Montiel ("Guida per riconoscere i tuoi santi"), ne affronta sotto forma di violento e serrato thriller psicologico le conseguenze nella psiche di un marine (Shia Labeouf), congedato dopo aver commesso un terribile sbaglio che gli ha lasciato in eredità una mente disastrata, e alla ricerca del proprio figlio in un'America post-apocalittica: per dirla col regista, «l'idea era far sì che l'argomento della guerra non venisse relegato alla cronaca, ma venisse sperimentato da ciascuno in modo molto realistico. Come dice uno dei personaggi del film, "la guerra sta venendo a casa"».

In "Krigen" (semplicemente, una guerra) ancora in Orizzonti, il danese Tobias Lindholm ci offre un'angolazione, quella del proprio paese che fa parte dei contingenti Nato a Kabul, abbastanza insolita, perché lo sguardo si rivolge in parallelo a un comandante di compagnia di stanza insieme ai suoi uomini in una sperduta provincia afghana, e alla sua famiglia, moglie e tre figli, rimasti in patria a vivere la vita di tutti i giorni.

Vita che cambierà quando il protagonista si trova intrappolato sotto il fuoco nemico. Il regista è proprio uno di coloro che, per sua stessa ammissione, la guerra l'ha vista solo in televisione e nei film. Di qui la necessità di contattare testimoni diretti, per raccontare storie di esseri umani, non per cercare una "verità": che, sulla guerra, non esiste.

"A flickering truth" (Una verità incerta) è non a caso il titolo del documentario della neozelandese Pietra Brettkelly in Venezia Classici, dove scopriamo che l'Afghanistan è anche altro. Per esempio, il suo cinema, di cui praticamente nulla sappiamo. Eppure questo cinema, in oltre un secolo di conflitti, è esistito e ha riprodotto la sfaccettata realtà di quel paese: consapevoli di ciò tre sognatori si lanciano alla riesumazione e al restauro di oltre ottomila ore di pellicola sepolte dalla polvere e dalle macerie di un secolo di conflitti. Un archivio immenso, cui l'autrice ha avuto rocambolescamente accesso fra elicotteri americani volteggianti nel cielo e rigidi controlli, con una determinazione premiata alla fine dai risultati e dalla possibilità di raccontare una storia unica: quella di un paese sopravvissuto anche grazie al proprio cinema.

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