L’America è ancora un Paese razzista La salveranno i libri?

di FEDERICA MANZON
È una notte di novembre e nevica a Bushwick, un angolo impoverito e sconfortato di New York. La neve cade con armonia e silenzio, come una benedizione destinata a quartieri più ricchi. “La regina delle nevi” (Bompiani, pagg. 286, euro 17), l’ultimo romanzo di Michael Cunningham in uscita domani nelle librerie, dichiara già nel titolo il suo debito con Andersen.
Come nella fiaba che l’ha ispirato anche qui c’è un lago immobile e artico, grande come una città, infranto in tante schegge quante sono le vite dei personaggi: Barrett, il gay pieno di talento, il genietto di Yale che ora fa il commesso in un negozio vintage di Brooklyn; suo fratello Tyler, con la sua intensa abilità negli sport e il singolare dono per la musica che però fatica a sbocciare in una canzone davvero memorabile; Liz e i suoi giovani innamorati di cui stufarsi presto. E poi al centro, nel suo trono gelido, l’eterea e bellissima regina Beth, la sposa di Tyler, la ragazza morente che come un perno invincibile fa ruotare attorno a sé tutta la storia.
«Penso che la gente si preoccupi troppo. Penso che dovremmo correre rischi e commettere errori», scrive Cunningham nel romanzo che presenterà oggi alla Milanesiana. «Anche se, sai - continua - le nostre ragioni potrebbero non essere così nobili e pure. Penso che si potrebbe essere nobili e puri per tutta la vita e finire, be’, praticamente soli».
Anche in questo libro emerge chiara l’idea che la vita vale la pena nel momento in cui è apertura, rischio. Si può dire lo stesso per la letteratura? «Vita e letteratura non sono due mondi distinti. Nella vita io non sono per nulla interessato a quel genere di persone tutte d’un pezzo, senza cedimenti o con slanci superficiali. Allo stesso modo credo che la letteratura debba essere capacità di rischiare, di compromettersi. Non credo che scrivere sia costruirsi un rifugio e chiudersi dentro, ma piuttosto assomiglia al sedersi sul davanzale di una finestra e sporgersi rischiando di precipitare».
Com’è nata l’ispirazione di questo romanzo dalla fiaba di Andersen?
«Sono semplicemente partito dalle parole “regina delle nevi” - spiega Michael Cunningham -, mi piaceva il loro suono. Evocavano un universo ovattato e insieme più puro, più preciso. Una sorta di mondo racchiuso in una palla di vetro che contiene segreti e meraviglie».
Questa magia si riverbera anche sulla storia, nell’atmosfera di misterioso equilibrio della vita e della morte.
«Per quello che ne so, noi siamo gli unici esseri viventi consapevoli fin dalla nascita di dover morire. Non credo si possano scrivere romanzi sulla vita senza tenere conto anche di quel limite che ci guarda dal fondo».
Eppure nella nostra epoca la morte è un tabù molto forte.
«In America spesso tendiamo a dimenticarcene, diventiamo nervosi e irritabili quando viene nominata. Ma io credo che la letteratura abbia il compito di parlare delle cose di cui non si parla. Certo, io non sarei mai riuscito a creare un personaggio come Beth, l’innamorata fragile che sta per morire, la donna cui ogni canzone viene dedicata, se non avessi conosciuto qualcuno che sta vivendo questa esperienza. Non me la sarei mai sentita di inventare una cosa del genere».
I suoi personaggi non assomigliano per niente allo stereotipo dell’americano ambizioso e deciso.
«Sono stufo di questa idea di una nazione piena di imbecilli ottimisti e pieni di energie. Sono molto più attratto dalle vite qualunque, da quelli che vivono in sobborghi fatti di parcheggi e magazzini di cemento abbandonati. Mi piace immaginare i miei personaggi sempre sospesi su una soglia, che ondeggiano tra contraddizioni e incertezze, sanno che la felicità è fatta di istanti fragili non di assolute certezze».
Vite qualunque ma legate sempre alla letteratura...
«La letteratura è sicuramente il modo migliore che conosco per capire qualcosa delle nostre vite. Un recente studio nel New York Times ha dimostrato come le persone che leggono molta fiction sono in media più empatiche. Questo non ci assicurerà un mondo migliore, ma una persona empatica di sicuro capisce che radere al suolo un altro paese e sterminare i suoi abitanti non è una cosa buona».
Tyler, il suo protagonista, a un certo punto pensa che “narrerà loro storie che li aiuteranno a capirsi fino in fondo” cosa significa per Michael Cunnigham raccontare storie?
«Tendo a concordare con Tyler...».
Sullo sfondo di ogni sua storia c’è la politica americana, questa volta il periodo della seconda elezione di George Bush fino alle porte del mandato Obama.
«Si tratta di un’epoca decisiva. Ci ha portato a rieleggere il peggior presidente della storia degli Stati Uniti, quello che ha distrutto l’economia e ci ha trascinato in guerre inutili. E poi, quando sembrava che non ne saremmo più stati capaci, abbiamo eletto un presidente afro americano. Proprio noi che rimaniamo una nazione profondamente razzista».
Scrivere alla luce dell’oggi su quel periodo porta a essere più disincantati sul miracolo Obama?
«Personalmente continuo a pensare che abbia dell’eccezionale il modo in cui ha cambiato il sistema sanitario, ha migliorato le condizioni dei gay... Certo esiste ancora Guantanamo e ci sono i droni che si abbattono sui matrimoni in Pakistan, ma non dobbiamo dimenticare che l’America è razzista. Metà del partito repubblicano preferirebbe vedere il paese raso al suolo piuttosto che salvato da un presidente nero».
Rispetto a dieci anni fa, il desiderio e l’amore e la famiglia, hanno subito un forte smottamento. Penso al concetto di identità sessuale e le sue trasformazione.
«Uno scrittore ha come compito principale registrare i cambiamenti della propria epoca. Noi capiamo la Russia dell’Ottocento grazie a Tolstoj e Dostoevskij e Cechov. Io sono uno scrittore gay, ho vissuto la crisi dell’Aids, ho visto amorevoli famiglie biologiche occuparsi dei propri figli e ho visto figli telefonare alle proprie famiglie solo una volta per dire: “Sono gay, ho l’Aids”. In quei casi famiglia poteva diventare una coppia di lesbiche che ti comprava le medicine, l’amico eterosessuale che si incaricava di portarti alle visite, il compagno che prendeva la parola al tuo funerale. Ho imparato che famiglia significa chi è capace di esserti accanto».
Come si può scrivere d’amore oggi?
«Con un po’ di coraggio. Io l’ho fatto inventandomi una luce dal cielo che appare a Barrett. È una sorta di manifestazione dell’inconscio, poco importa che sia reale o no. Ma quando cerca di dargli il senso di un’illuminazione, inciampa nell’amore. Credo che l’amore sia sempre questo, qualcosa in cui inciampiamo quando meno lo stiamo cercando».
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