“L’angelo nero” di Tabucchi porta all’autoinganno

Eleonora Rimolo è autrice del romanzo epistolare “Amare le parole” (Lite Editions) e di diverse raccolte poetiche. L’ultima, “La terra originale”, è uscita per la collana gialla Pordenonelegge-Lietocolle nel 2018. Ha meritato diversi premi tra cui il Pascoli e il Premio Ossi di seppia. Rimolo si distingue per l’eleganza delle soluzioni stilistiche, come osserva anche il suo prefatore Giancarlo Pontiggia. Merito degli studi classici, ma anche merito di uno stile originale che agisce anche su altri fronti, lì dove Rimolo può farci prevedere una serafica linearità, ecco invece un spiazzante inversione di senso. Il suo consiglio: «Nella raccolta di racconti di Antonio Tabucchi “L’angelo nero” (Feltrinelli) il lettore viene continuamente sottoposto ad un incontro con l’ambiguitas in forma narrativa sublime, in cui filosofia, psicoanalisi e letteratura varcano la soglia della realtà. Questo scontro si fonda su un trauma irriducibile che è l’urto con il Perturbante, così come lo intende Agamben: ogni esperienza inquietante è anche esperienza dell’inquietudine e attesta l’alienazione del soggetto in relazione ad un mondo senza senso, in cui gli oggetti più familiari sono sottoposti a metamorfosi allarmanti che generano disagio. In “Notte, mare o distanza” la narrazione appare spietata, avviluppata tra le trame della memoria e dell’immaginazione, aperta ad un gioco beffardo condotto durante una riunione tra poeti che brindano a quello che viene considerato “un buon viatico”, cioè la poesia. D’altra parte, che questa raccolta sia indissolubilmente legata alle sorti di Eugenio Montale, è stato dichiarato da Tabucchi stesso nella nota introduttiva. Un notevole presenza di riferimenti a “Satura” e alla sua ambientazione disincantata si concentra nel racconto “La trota che guizza tra le pietre mi ricorda la tua vita”, in cui si assiste ad un elogio della menzogna poetica, perché la poesia è un autoinganno che consente di restare in vita sotto forma di entità autocosciente, tra i “nati-morti”. Di conseguenza, il poetare si trasforma in un esercizio di rinuncia alla propria identità». —
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