L’Art Déco reinventò la donna cedendo alla sua seduzione

Molti artisti del Friuli Venezia Giulia a Forlì: Marussig, Selva, Sbisà, Metlicovitz
Di Franca Marri

di FRANCA MARRI

Il nome deriva dall'Esposizione universale di Parigi dedicata alle "Arts Decoratifs" del 1925, infatti, dapprima si iniziò a parlare di "stile 1925", mentre poi si trovò la fortunata formula di "Art Déco". Con questa definizione si fa riferimento a un gusto, una fascinazione, un linguaggio che hanno caratterizzato la produzione artistica italiana ed europea negli anni Venti e, dopo il 1929, anche quella americana.

Dagli stilemi dall'Art Nouveau, dalle linee morbide e dai motivi ispirati al mondo della natura, si passa alle forme geometriche per un ritorno alla simmetria e un accostamento al razionalismo; dall'idea della produzione di qualità diffusa a tutti gli strati sociali, ci si volge a progettare l'oggetto di lusso, il pezzo unico, in materiali preziosi e rari, di forme ricercate.

È un gusto eclettico, che risente delle avanguardie, del cubismo e del futurismo, che abbraccia il mondo dell'architettura, della pittura e dell'arredo, del manifesto pubblicitario e del gioiello.

Sinora, in Italia, non era mai stata allestita una mostra veramente completa dedicata a questo variegato mondo di invenzioni, che non solo produce accattivanti contaminazioni con il gusto moderno, ma evoca atmosfere dal mondo mediterraneo della classicità o dell'Egitto (in particolare in seguito alla scoperta nel 1922 della tomba di Tutankhamon), con echi persiani, giapponesi, africani, in un desiderio di lontananza e alterità, di sogno e fuga dal quotidiano.

Negli ampi e articolati spazi dei Musei San Domenico di Forlì si è inaugurata lo scorso weekend l'esposizione "Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia". La mostra, cui si accompagna un ricco catalogo edito da Silvana Editoriale, rimarrà aperta fino al 18 giugno.

Curata da Valerio Terraroli, con la collaborazione di Claudia Casali e Stefania Cretella, è diretta da Gianfranco Brunelli affiancato da un prestigioso comitato scientifico presieduto da Antonio Paolucci.

Propone 440 opere tra sculture, dipinti, disegni d'architettura, vetri, manifesti, oggetti d'arredo, abiti, ceramiche, oreficerie; divisa in 15 sezioni attraversa vent'anni di produzione artistica italiana nell'intento di ricreare l'atmosfera di quegli anni, di quei luoghi, di quel pubblico dell'alta borghesia che con sin troppa disinvoltura si era gettata alle spalle il dramma della grande guerra e intendeva dedicarsi soltanto alla piacevolezza del vivere.

Il percorso espositivo inizia con la ricerca delle radici del nuovo linguaggio individuabili nelle semplificazioni arcaicizzanti di suggestione secessionista ed espressionista. Una galleria di sculture accoglie così lo spettatore, dalla "Signora con ventaglio" di Libero Andreotti alla "Popolana che canta" di Domenico Rambelli, per giungere alla "Vergine vestale" o a "Contemplazione" dell'artista croato, membro della Secessione viennese, Ivan Mestrovic, a "Enigma" del triestino Attilio Selva.

Si passa quindi a illustrare il fenomeno legato alle biennali internazionali di arti decorative di Monza del '23, '25, '27 e '30, oltre naturalmente all'expo di Parigi del '25 e '30 e di Barcellona del '29: in tutte queste circostanze la forza e l'originalità prorompenti dell'alta produzione artigianale e preindustriale italiana contribuirono alla nascita del design e del cosiddetto "made in Italy".

Accanto ai cataloghi e ai manifesti originali delle manifestazioni sono esposti tessuti, porcellane, ferri battuti, vetri soffiati di diversi autori quali ad esempio Vittorio Zecchin, Carlo Scarpa, Galileo Chini, Fortunato Depero, Giò Ponti (per Richard Ginori) e Guido Andlovitz, insieme ai disegni di nuove architetture tra cui spiccano i progetti a china ed acquerello "Tre case nuove strambe" di Pietro Portaluppi. Dopo uno sguardo agli arredi del Vittoriale dannunziano, da cui giunge anche la sua Isotta Fraschini cabriolet personalizzata, blu elettrico, si passa al mondo del teatro.

Accanto ai bozzetti di scenografie e costumi teatrali appare così l'opera scelta ad immagine della mostra, ovvero il manifesto disegnato da Leopoldo Metlicovitz, pubblicato dalla Ricordi, per la prima della Scala della Turandot di Puccini, dove si riassumono preziosità, eleganza, ricercatezza e suggestioni orientali di gusto assolutamente déco. Tra nostalgia dell'antico e ricerca di contemporaneità si incontrano poi le sculture di Arturo Martini, di Marcello Mascherini e nuovamente di Attilio Selva; mentre nella galleria di ritratti femminili troviamo un "Doppio ritratto" di Dyalma Stultus e la "Signora con pelliccia" di Piero Marussig.

Ma è nel tema del nudo femminile, nella "Venere moderna", che emerge la nuova immagine della donna emancipata, consapevole della propria forza seduttiva. Qui, insieme al capolavoro di Felice Casorati "Raja", si possono ammirare le splendide opere di altri tre autori triestini: "La coppa verde" di Oscar Hermann Lamb, la provocante "Bethsabea" Carlo Sbisà e "Il mattino" di Giannino Marchig (prestato dai Musei provinciali di Gorizia).

Dopo una serie di abiti di sera si arriva alla crisi del déco, al passaggio del testimone oltreoceano e agli ultimi esiti del déco riscontrabili nei dipinti di Tamara de Lempicka. Un'ultima suggestione viene infine regalata al pubblico dalla camera delle meraviglie allestita con le splendide, preziose oreficerie di Alfredo Ravasco nella sala circolare che, all'interno dei Musei di San Domenico, custodisce la "Ebe" di Antonio Canova.

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