L’Italia del Novecento dall’Abissinia ad Amazon una terra di eterni ritorni

Miguel Gotor pubblica per Einaudi un libro che ripercorre le fasi salienti della storia del nostro Paese

la recensione



Milano, piazza Sansepolcro 1919; Roma, 8 settembre 1943; Brescia, piazza della Loggia, 1974; Roma, via Caetani, 1978. Quattro istantanee si fissano come lampi al magnesio nella storia d’Italia del Novecento: il fascismo, la “fine della patria”, la stagione delle stragi e la morte di Moro. Sono snodi, punti focali del flusso degli eventi per i quali hanno rappresentato una pietra angolare; da lì in poi le cose hanno preso una piega anziché un’altra. Ma ce ne sarebbero tanti altri, di fermi-immagine che hanno segnato un’epoca: dalle monetine contro Craxi, alla discesa in campo di Berlusconi, al vaffa day di Grillo. Lo storico Miguel Gotor, che una decina di anni fa aveva curato la pubblicazione delle lettere che Moro aveva inviato dalla prigione delle Brigate rosse, ha da poco pubblicato “L’Italia nel Novecento”(Einaudi, 568 pagg. , 22 euro) un saggio che va “dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon”.

Mentre è già trascorso il primo decennio del XXI secolo e la politica si è trasferita sul piano superficiale dei tweet, la società è diventata “liquida”, i gusti, dalla veloce obsolescenza, sono dettati dagli influencer e siamo avvolti da una membrana smart e hybrid, gli snodi della storia italiana sono sempre là, in quelle istantanee che affollano il nostro immaginario, Mussolini a testa in giù a piazzale Loreto, il ragazzo che impugna la P38, le macchine sventrate di Falcone e Borsellino. Gotor rintraccia i fenomeni di lunga durata che scorrono in profondità, scopre il panorama al di fuori dalla cornice, rintraccia quegli eterni ritorni per cui ci troviamo a dire “questo mi pareva di averlo già visto”. Lo fa attingendo anche alla cultura popolare e alle sue canzoni, sonde e megafoni di un bruciante immaginario.

Per Gotor il Novecento italiano inizia simbolicamente con la tragica impresa nella guerra abissina del 1896, e la sua durata si dispiega fino ai tempi di Amazon, paradigma della diffusione di una automazione che produce disoccupazione o, se va bene, lavoro frantumato e precario. Il popolo in movimento del celebre quadro di Pelizza da Volpedo all’alba del Novecento si è dissolto nell’individuo, virtualmente iperconnesso, ma solo e marginalizzato che sfoga il suo rancore sul web. Tra questi due poli temporali Gotor rintraccia i caratteri la cui permanenza nel tempo permette di elevarli a prototipi.

Per esempio: la spinta antipartitica e antipolitica che è dilagata nelle piazze riempite dai Cinquestelle era stata sbandierata anche nel programma dei fasci di combattimento nel 1919. I “grillini” come i fascisti antemarcia? Certamente no, ma in entrambi i casi si manifesta il carattere di un italiano che non si fida della cornice rappresentativa, la distrugge in nome di una “pulizia” che poi genera a sua volta un altro regime, fino al prossimo movimento antipartitico.

Ci sono poi le occasioni mancate. Come la spinta che negli anni Sessanta portò l’Italia a esercitare un ruolo importante in ambito internazionale. Era stato il presidente dell’Eni Mattei, per avviare l’Italia all’indipendenza energetica, a promuovere una attiva politica estera in Medio oriente, ma tutto si arrestò di fronte alla reazione degli anni Settanta in cui la strategia della tensione, fra i suoi tanti effetti, contribuì anche a riportare il paese a una dimensione limitata.

Eterni ritorni, occasioni mancate e nuove interpretazioni storiografiche. L’otto settembre ’43 fu la fine della patria? Secondo Gotor fu invece l’inizio di un percorso di presa di coscienza civile, che dimostra come nell’emergenza si affacci un bisogno, quello della presenza dello Stato. Identificare questo desiderio di lunga durata, che affonda nei secoli in cui la penisola era stata terra di conquista straniera, non suona come un autoassolvimento, ma come ricerca delle cause per cui, conclude Gotor, «non so perché, ma in quest’attimo fuggente, ormai rudere esausto tra i ruderi, me duele Italia». –

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