Luciano Fonda, una vita al servizio della scienza Elettra è la sua eredità

FABIO PAGAN
«Molto periglioso è stato navigare in questi mari». Luciano Fonda, il fisico che fu il protagonista principale dell’avventura che portò il sincrotrone Elettra a Trieste, moriva nel sonno vent’anni fa, nella notte tra il 20 e il 21 luglio 1998, stroncato da un infarto a 67 anni sul fiume Krca, in Croazia, mentre si trovava su una barca di amici. E sembra così assumere quasi un significato premonitore quella breve frase che Fonda scrisse a chiusura di uno degli ultimi capitoli del suo libro “Operazione Sincrotrone a Trieste”, uscito nel 1988 per le Edizioni Italo Svevo: una puntigliosa ricostruzione in forma di diario delle vicende scientifiche e politiche che tra il 1980 e il 1987 videro la nostra città impegnata in una “corsa al sincrotrone”. Vicende avventurose e perigliose, appunto, con una navigazione a vista verso una meta sfuggente.
Luciano Fonda era nato a Pola il 12 dicembre 1931, in una casa dalle cui finestre si godeva la vista della pietra bianca dell’Arena. Vi rimarrà fino ai 12 anni, quando il padre Marcello e la madre Lucia decisero di trasferirsi a Trieste. Una decisione sofferta, ma nel 1943 in quelle terre non tirava più un’aria rassicurante. E così tutta la famiglia, con la nonna, Luciano e le tre sorelle, s’imbarcò sul piroscafo diretto a Trieste.
Negli anni dell’immediato dopoguerra Luciano Fonda frequentò il liceo Dante Alighieri e si iscrisse poi a Ingegneria. Ma in casa la situazione economica era precaria: così, pur continuando gli studi, si fece assumere alla Cassa di Risparmio come impiegato di seconda categoria. Dopo un anno, il giovane Fonda capì qual era la sua strada: rinunciò al posto fisso in banca e si iscrisse a Fisica. Senza trascurare lo sport: salto in alto e soprattutto pallacanestro, vincendo con la sua squadra i campionati universitari italiani del 1951. Nel 1955 si laureò “summa cum laude” con una tesi sulle teorie di campo non-locali. Suo relatore era Paolo Budinich, lui pure istriano, con cui si svilupperà un’amicizia profonda.
Incontra Thea Arcangeli, diplomata in pianoforte, mentre in chiesa si esercita all’organo su un Preludio di Bach. Si sposano alla fine del 1957. Fonda aveva intanto vinto una borsa di studio Fulbright per gli Stati Uniti. Un’opportunità imperdibile. E il 28 agosto 1958, insieme alla moglie, salirono sul transatlantico “Saturnia” che da Trieste li avrebbe condotti a New York. L’esperienza in terra d’America risulterà decisiva. Un anno a Bloomington, nell’Indiana, poi l’offerta di J. Robert Oppenheimer (che durante la guerra aveva guidato il progetto Manhattan) di trasferirsi a Princeton, nel New Jersey, presso il celebre Institute for Advanced Study, dove Einstein aveva lavorato nei suoi ultimi anni.
Fonda resterà a Princeton un paio d’anni. Nel marzo del 1960 diventa libero docente e nel novembre dello stesso anno – non ancora ventinovenne – vince il concorso alla cattedra di fisica teorica. Rientrato in Italia nel 1961, passò due anni tra Palermo e Parma e nel novembre 1963 viene richiamato all’Università di Trieste. In quegli anni nacquero i tre figli: Alessandro (ordinario di analisi matematica al nostro Ateneo), Paola e Gabriella.
Il 1964 è l’anno-chiave per la fisica triestina. Nascono il Centro di fisica teorica e il Consorzio per la fisica, l’anno successivo è la volta della Scuola di perfezionamento in fisica (di cui Fonda viene nominato direttore), che nel 1980 verrà assorbita dalla Sissa. Fonda guida per tre anni l’Istituto di fisica teorica dell’Università, i suoi interessi si allargano dalla fisica subnucleare alla fisica della materia. Collabora strettamente con GianCarlo Ghirardi (scomparso poche settimane fa), con cui firmerà una trentina dei suoi cento paper scientifici e un libro, “Simmetry principles in quantum physics” (New York, 1970). Nel 1978 diventa presidente della Scuola internazionale di Trieste, creata per i figli dei ricercatori dell’Ictp, con sede a Opicina. Un’attività senza tregua al servizio della scienza e delle istituzioni cittadine. Ma il bello deve ancora arrivare.
Sono i primi giorni del novembre 1980. Luciano Fonda si trova nello studio del ministro della Ricerca Pierluigi Romita, nello storico Palazzo della Minerva, nel centro di Roma. In quelle stesse stanze, 350 anni prima, si era svolto il processo del Sant’Uffizio contro le eresie scientifiche di Galileo. Fonda – lo confessa lui stesso in “Operazione Sincrotrone” – è intimidito: non è avvezzo a frequentare i centri del potere politico. Ma imparerà presto. Si trova lì per sostenere la buona causa di Trieste a ospitare un Laboratorio di radiazione di sincrotrone basato su un anello di accumulazione di elettroni da 5 GeV, con importanti ricadute applicative. Il progetto – proposto dalla Fondazione europea delle scienze – sembra fatto su misura per la neonata Area di ricerca sul Carso, che è ancora un guscio vuoto. L’idea gli era stata lanciata qualche settimana prima, durante un party all’Ictp, da Franco Bassani della Normale di Pisa, un guru della fisica della materia.
La “vocazione” triestina per un acceleratore di particelle risaliva a una decina d’anni prima, quando la nostra regione si era candidata a ospitare nel sito di Doberdò una macchina ben più grande e ambiziosa: un protosincrotrone da 300 GeV. Una sfida che aveva coalizzato tutta la città, con “Il Piccolo” in prima linea. Ma alla fine – giustamente – il protosincrotrone andò al Cern di Ginevra. Era giunto ora il momento di tornare in gara? Romita si dimostrò subito interessato al progetto, incitò Fonda a ottenere gli indispensabili appoggi locali. Cominciò così una battaglia sul fronte politico e scientifico durata cinque anni. Nel 1983 il Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica, mise sul piatto della bilancia 105 miliardi di lire. Ma non bastò. Francia e Germania si spartirono la posta: il sincrotrone sarebbe andato a Grenoble, a Colonia una galleria del vento per ricerche di aerodinamica.
Tutto finito? Macché. Fonda estrae dal cilindro il progetto per un sincrotrone da 1,5 GeV che elabora assieme a Renzo Rosei, un fisico romano che allora era uno dei pochi ad avere competenze sulla luce di sincrotrone. Ricorda oggi Rosei: «L'intesa con Luciano era totale, sia per carattere e sia perché i nostri ruoli si integravano benissimo. Passammo insieme attraverso la cocente delusione del colpo di mano di Francia e Germania, ma non ci scoraggiammo. Nel giro di pochi giorni preparammo un progetto alternativo per una macchina di luce più piccola, ma altrettanto ‘magica’. Tramite l'onorevole Corrado Belci ottenemmo un appuntamento in tempi stretti con il ministro Luigi Granelli e gli presentammo l'idea. Lui reagì subito molto positivamente e da li è cominciato tutto». Grazie alla conduzione di Carlo Rubbia, fresco di Nobel, nel 1993 il sincrotrone Elettra entrava in attività. Il sogno di Luciano Fonda diventava realtà. E nel 1999, un anno dopo la sua morte, veniva a lui intitolato il Collegio universitario che oggi ha sede presso l’ex Ospedale militare. —
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