Quel che il lampo ha da dirti di Nacci Il viandante di Trieste torna alla poesia
La presentazione al museo Lets

Luigi Nacci è conosciuto per i suoi scritti sulla viandanza, oltre a essere lui stesso una guida ambientale. E certo non possiamo dimenticare il suo romanzo, edito lo scorso anno da Einaudi. Pochi sanno che Nacci, sul fronte scrittura, mosse invece i primi passi in poesia. La scrittura ebbe quella prima forma d’ispirazione, con un libro d’esordio pubblicato quindici anni fa. L’autore triestino torna ora ai versi con la raccolta “Quel che il lampo ha da dirti” (Samuele Editore-Pordenonelegge, pagine 112, euro 15) che sarà presentato martedì pomeriggio al Museo Lets-Spazio Forum (alle 17.30) da Riccardo Cepach.
Non a caso in esergo della silloge trionfa una frase di Edmond Jabès: «Ogni libro si scrive nella trasparenza d’un addio». Ed effettivamente l’addio, la distanza, il distacco rientrano nella poetica di Nacci. E non solo in poesia.
La stessa viandanza ci viene restituita come un “distacco”, non tanto dalle radici, da una casa stabile, quanto da se stessi.
Da subito il poeta ci introduce in una sorta di testamento, in ciò che rimarrà di noi, pochi oggetti, cose fragili, materiche, poche cose. Ma volendo, alla fine di questo prologo d’addio, s’intuisce una sorta di preludio alle sezioni seguenti. Perché appunto: «Avrai poche cose, tra quelle cose / ci sarò io», scrive. Insomma è nella ricchezza del niente, nel coraggio di essere «solo come un dio» che forse si può aspirare, forse, a un ricongiungimento identitario: «ci sarò io», scrive infatti il poeta. In fondo siamo ed «eravamo poco più che ombre», per citare il titolo della seconda sezione.
Ombre che balzano agli occhi, nei suoi aspetti civili soprattutto, ma anche esistenziali. Ombre di nome Mohamed, Faruk, Maria la zingara, Abelka, ma anche zone ombra come il villaggio di Račja Vas o Villalval, paesi fantasma dove non è difficile trovare una piccola comunità sostenuta da amicizia e solitudine.
Potrebbero sembrare due termini in antitesi – amicizia e solitudine – ma di fatto le storie che Nacci ci racconta in versi, incarnano una strada che è impervia, fatta di antitesi, abbandoni, sfide e in questo ha fatto sua la lezione frostiana: «due strade divergevano in un bosco ed io -/ io presi la meno battuta...», scriveva il poeta americano.
Di rimando l’autore triestino ci suggerisce di scegliere «il sentiero dei tuoni», «la cengia più esposta», di scansare «la strada maestra», di amare «la via abbandonata», di scegliere «i sentieri dismessi», insomma di stare «al centro del buio» confondendo i propri desideri per scegliere la strada meno battuta. Perdersi e perdere il più possibile pare restituirci diverse possibilità, sembra anzi la sola via per mantenere un cuore aperto senza lasciare che tutto ci sovrasti: «se tutto ti trattiene parti» leggiamo nell’ultima sezione. E qui la felicità pare associarsi alla caduta di rilkiana memoria, ma al contrario. Se per Rilke la felicità è più crollo che ascesa perché ci rivela la fugacità delle emozioni, in Nacci «risplendere nei precipizi» porta con sé l’autentico scopo di una possibilità di meraviglia. Proprio nell’ultima sezione la voce del poeta si veste di una personalissima scrittura in cui la prosa poetica si eleva alla lirica.
Forse è meglio camminare al buio, lasciare aperte le vie, non abbiamo niente da perdere in fondo dal momento che «per quanto possano scavare / le tue mani non troveranno l’oro / né la parola cercata per anni / o la chiave che apre ogni porta / non c’è alternativa alla vita».
Fino a giungere a una visione in cui la solidarietà umana si traduce nella concretezza di un abbraccio, «nello scrivere parole esatte» o nell’insistere nella grazia. Perché appunto, recita un magnifico incipit: «c’è molta morte ci vuole tenerezza». —
Riproduzione riservata © Il Piccolo








