Maurizio Frullani, l’oscuro viaggio delle immagini

In mostra al Museo Carà di Muggia opere del fotografo scomparso pochi mesi fa affiancate a quelle del figlio Giacomo
Di Franca Marri

«Per chi, negli anni '70, dall'Europa muoveva verso est, Herat, la prima città dell'Afghanistan che si incontrava sulla via verso l'India, rappresentava la porta d'Oriente. A Herat incominciava il viaggio che solitamente si concludeva a Katmandu. Il tempo si fermava, anzi tornava indietro, riportando al cuore ed alla mente dolci epifanie d'infanzia, visioni delle Mille e una notte, paesaggi, situazioni, personaggi veri e immaginari, visti e vissuti come reali». Così scriveva Maurizio Frullani, nella presentazione di una sua mostra, all'inizio degli anni '80.

Dal 1974 al 1988 aveva percorso i territori della Turchia, l'Afghanistan, il Pakistan, l'India, il Nepal. In India e all'Istituto interculturale di studi musicali comparati di Venezia aveva studiato musica indiana. Dal 1993 al 2000 ha vissuto in Eritrea, svolgendo la professione di insegnante di educazione fisica alla scuola italiana di Asmara. Da ogni terra, da ogni esperienza ha tratto un ricco e originale materiale fotografico.

Appassionato viaggiatore, raffinato fotografo, sempre elegantemente discreto nel suo modo di porsi, Maurizio Frullani, classe 1942, è scomparso qualche mese fa.

Una mostra, allestita al Museo d'arte moderna "Ugo Carà" di Muggia, a cura di Adriano Perini, gli rende omaggio in questi giorni affiancando il suo ultimo lavoro intitolato "Miti e Leggende", alle fotografie del figlio, Giacomo Frullani: la testimonianza di un grande artista, l'autenticità e l'essenza di un'importante eredità.

"La cavalcata delle Valchirie", "Giona", "Circe ed Ulisse", "La regina di Saba", "Il martirio di San Sebastiano", "La vecchiaia di Priapo" sono alcuni dei titoli delle opere di Maurizio che vengono a rivisitare storie e personaggi della mitologia antica e della religione cristiana in una maniera ironica e dissacrante ma con un occhio particolarmente attento e profondo.

«Può anche essere che in questa società pragmatica si senta il bisogno del mito, dell'eroe, del Cristo, o semplicemente di sognare - osservava Maurizio -. E allora ecco che risorgono, vengono fuori dalla terra, l'argilla che li ha racchiusi come tante crisalidi si spacca, le bende si slegano...».

Ecco che dall'argilla e dalla più nera oscurità se ne escono ancora una volta «personaggi veri e immaginari, visti e vissuti come reali»; santi ed eroi ritornano a popolare le immagini del fotografo che ha sempre amato i toni scuri; sin da quando rimase affascinato da una mostra di fotografie di Eugene Smith, nel '79, a Venezia. Come lo affascinava la pittura di Caravaggio, per le figure di popolani e quella laica religiosità presente anche nelle sue fotografie: nei suoi ritratti dell'Eritrea come nei suoi miti e leggende; nelle riprese di ambienti reali come nelle messe in scena accuratamente costruite del suo ultimo lavoro, capaci di immergere chi guarda in un mondo irreale e paradossalmente vero.

Giacomo Frullani ha ereditato dal padre la passione per i viaggi e per la fotografia. Come il padre utilizza rigorosamente lo strumento analogico dimostrando una notevole sensibilità e propensione per il bianco e nero. Anche nelle sue immagini c'è il gusto per il racconto unito alla capacità di far parlare gli sguardi di chi ha incontrato durante i suoi passaggi in Giappone, Cambogia, Vietnam. E c'è pure la capacità di raccontare un paesaggio, il clima di un luogo lontano, facendolo sentire presente.

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