Miloš Budin «Italiani e sloveni uniti slogan rivoluzionario»

Per Miloš Budin il ’68 fu un periodo di importanti cambiamenti sociali, che mutò profondamente la sua persona: scoprì in quegli anni la sua vocazione di leader e capì che per realizzarla lo studio era indispensabile. Nel 1970 Budin fu protagonista di un episodio di cui non ci parla in quest’intervista ma che i suoi colleghi di allora ricordano molto bene e di cui si scrisse anche nelle pagine del Piccolo: l’8 dicembre, nel corso delle manifestazioni neofasciste contro l'arrivo di Tito in visita in Italia e contemporanee al tentativo di colpo di stato di Julio Valerio Borghese, Miloš Budin e Dušan Udovič, recentemente scomparso, furono aggrediti da un gruppo di manifestanti, muniti di caschi e bastoni. Il movimento studentesco universitario insorse contro questa aggressione, che fu condannata anche dai rappresentanti delle istituzioni regionali e comunali, e decise di partecipare alla manifestazione unitaria del 14 dicembre 1970. Durante quella manifestazione, promossa dal Comune di Trieste, Udovič lesse il comunicato degli studenti che condannava quell’atto di violenza razzista sia in italiano che in sloveno, accanto al sindaco Spaccini. Per la prima volta la lingua slovena venne usata in una manifestazione del Comune, davanti a più di ventimila persone.
Come iniziò il suo ’68?
«Nel ’68 ero all’ultimo anno del liceo scientifico con lingua d’insegnamento slovena Prešeren. Eravamo una classe vivace, che raccolse subito l’eco del ’68 nel mondo: le notizie dagli Stati Uniti, dalla Francia e da tutt’Italia. Eravamo informati su ciò che stava succedendo e durante l’inverno anche noi, come molti altri licei e istituti tecnici cittadini, occupammo la scuola. Le motivazioni erano quelle diffuse in tutto il mondo della contestazione, accompagnate anche da richieste concrete: lottavamo contro una scuola che definivamo autoritaria, rivendicavamo maggior dialogo tra professori e studenti, il diritto di riunirci in assemblea, chiedevamo maggiore flessibilità nei programmi con l’introduzione di argomenti che fino a quel momento erano considerati tabù. Avremmo voluto saperne di più del pensiero di Sigmund Freud, come anche di Erich Fromm e di Wilhelm Reich, che proponevano una diversa concezione, più emancipata, ad esempio dei rapporti fra i sessi e della famiglia. Avremmo voluto studiare storia contemporanea, che rimaneva esclusa dai programmi dell’epoca».
Vi fu un coordinamento tra gli studenti delle scuole superiori triestine?
«Sì, si chiamava Coordinamento degli studenti medi e fu forse l’aspetto più interessante del movimento che interessò gli studenti più giovani, perché fece incontrare sistematicamente a un tavolo gli studenti che portavano avanti le occupazioni nelle scuole superiori italiane e slovene di Trieste. Il movimento studentesco medio, così come accadde anche a quello universitario, creò le condizioni perché si sviluppasse un rapporto costante e un’unione d’intenti tra la comunità giovanile di lingua italiana e quella di lingua slovena. Vista la storia di conflitti e tensioni che caratterizzò questo territorio all’epoca si trattò di un grande passo in avanti: segnava una svolta per le nuove generazioni. Fu allora che creammo lo slogan “Italiani e sloveni uniti nella lotta”. Ci venne naturale, perché Trieste ha una vocazione internazionale per storia, collocazione geopolitica, conformazione sociale e culturale. A quella vocazione rispose il movimento, che a livello universitario riunì tutte le diverse etnie presenti in città».
Com’erano prima di allora i rapporti tra italiani e sloveni?
«Soffrivano e portavano tutto il peso delle vicende di un passato tragico e tormentato, con la contesa tra Stati della zona dell’Adriatico Nord Orientale che aveva Trieste al centro. Questa storia travagliata si rifletteva anche nella società: sia durante che dopo la Seconda Guerra Mondiale gli scontri ideologici coinvolsero la popolazione. È vero che durante la lotta antifascista vi fu incontro e collaborazione interetnica, soprattutto nel campo della sinistra. Ma finita la guerra e dopo il trattato di pace del ’47, quando fu chiaro che il territorio libero di Trieste, sotto il governo alleato militare, non avrebbe avuto una propria autonomia ma avrebbe dovuto decidere da che parte stare, se sotto l’Italia o sotto la Jugoslavia, si creò un’incrinatura nel campo democratico, sinistra compresa. Anche in seguito la collaborazione fu circoscritta a due sole forze politiche della sinistra, il Pci e il Psi».
Anche gli studenti contribuirono, prima del ’68, al clima d’odio interetnico?
«Sì, alla fine degli anni ’50 e all’inizio dei ’60 ci furono a Trieste alcune manifestazione studentesche delle scuole italiane contro il riconoscimento concreto dei diritti degli sloveni, che non avevano una legge che li tutelava come minoranza. Vi furono contestazioni contro la costruzione del Teatro sloveno di via Petronio e contro la presenza del primo sloveno all’interno della giunta comunale triestina».
Come si realizzò l’unione tra italiani e sloveni all’interno dell’università?
«Io ci entrai nel ’69, mentre il movimento di contestazione stava crescendo, e m’iscrissi a Lettere e filosofia. Con un folto gruppo di studenti e anche qualche operaio sloveno fondammo il Circolo Matija Gubec, dal nome di un leader delle rivolte contadine croato-slovene del 1573. Il circolo faceva parte a tutti gli effetti del movimento della contestazione, che era composto da molti gruppi organizzati, che afferivano alla sinistra parlamentare o extraparlamentare, che si rifacevano a una corrente storica o a un leader di un movimento europeo. Lo scopo del nostro movimento non era quello di distinguersi dagli altri, ma di agganciare sulle nostre posizioni anche il mondo operaio della minoranza slovena. Ci riuscimmo, anche se parzialmente. Uscimmo anche con due numeri di un periodico. Ma una delle espressioni culturali più importanti e concrete del movimento di contestazione della minoranza, anche al di là del Gubec, fu l’istituzione di una compagnia teatrale che si rifaceva all’avanguardia, e che raccolse la partecipazione attiva di giovani del mondo studentesco ma anche di ragazzi che provenivano dal mondo operaio».
Vi furono collegamenti con il ‘68 jugoslavo?
«Sì, si creò un legame tra la proteste universitarie di Trieste e di Lubiana. Noi partecipammo a una loro manifestazione e organizzammo vari incontri con i loro leader. Erano molto concreti e interessati: ci inviavano promemoria e ci chiedevano informazioni sui progetti di riforma scolastica e universitaria che venivano portati avanti dal movimento ma anche dal Parlamento in Italia. Le rivendicazioni erano simili, anche se lì esisteva già un minimo di rappresentanza studentesca e attività organizzata sostenuta dal sistema socialista. Ma anche in Jugoslavia la principale richiesta riguardava il libero accesso e il superamento del concetto elitario di università».
Il ’68 jugoslavo interessò solo Lubiana?
«No vi furono proteste anche a Belgrado e Zagabria. La contestazione, seppure in un sistema politico diverso, si mosse seguendo le correnti ideali del movimento studentesco dell’Europa Occidentale. Lì per mettere in discussione l’autoritarismo del sistema il movimento rivendicava maggior socialismo, maggiore equità, maggiori diritti. Fu un movimento che durò un po’ meno che in Italia, ma rimasero sedi di riflessione intellettuale e politica che dettero un forte contributo al pensiero riformista europeo. Uscivano anche riviste importanti con questo tipo di contributi e riflessioni: la più famosa è “Praxis”, che raccoglieva contributi di intellettuali jugoslavi ma anche dell’occidente europeo e non. Al convegno annuale che la rivista Praxis organizzava a Korčula-Curzola in quegli anni, partecipò lo stesso Herbert Marcuse, il filosofo tedesco-americano tra i maggiori ideologi del movimento di contestazione nel mondo».
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