Patrick Modiano risveglia a Parigi le donne dei “Ricordi dormienti”

Lo scrittore torna su temi cari della memoria, dell’oblio, dell’indeterminatezza dei destini



C’è, nella labirintica narrativa di Patrick Modiano, un’ossessione salvifica e ipnotica per i luoghi. Nessun luogo è innocente, come nessun incontro che in un certo punto, in un certo momento, abbiamo occasione di vivere, depositandolo a volte negli anfratti più riposti della memoria, laggiù, sugli scaffali bui e impolverati del nostro archivio esistenziale, da dove forse, un giorno, tali incontri possono riapparire inattesi, e magari dare un altro scarto alla nostra vita. Per Modiano siamo nient’altro che una carta geografica dove l’esistenza segna percorsi forse causali e forse no, tornando spesso sui propri passi, segnando volti, nomi, indirizzi che determinano ciò che siamo e dove andiamo, mentre ogni istante è purtroppo irripetibile: «Se potessimo rivivere alle stesse ore, negli stessi luoghi e nelle stesse circostanze ciò che abbiamo già vissuto, ma viverlo molto meglio della prima volta, senza gli errori, gli inciampi e i tempi morti...».

Ragiona così Jean, protagonista dell’ultimo romanzo breve del Premio Nobel francese, “Ricordi dormienti” (Einaudi, pagg. 83, euro 15,00), racconto che rimarca i grandi temi dell’oblio, della memoria, dell’inafferrabilità di ogni destino cari allo scrittore, da “Dora Bruder” a “Dall’oblio più lontano”. Come tanti autori votati a fare i conti con gli inestricabili intrecci fra storia e memoria, Modiano ha una cifra riconoscibile e originale, quella topografia ossessiva che funziona come antidoto allo smarrimento, al vuoto in cui ogni anima rischia di precipitare.

E dunque un giorno Jean, a Parigi, mentre passeggia sul lungosenna, viene attratto dal titolo di un libro su una bancarella: “Il tempo degli incontri”. «Anche per me - riflette Jean -, in un lontano passato, c’è stato un tempo degli incontri. In quel periodo aveva spesso paura del vuoto. Una vertigine che non provavo quando ero solo, ma con certe persone che, appunto, avevo incontrato da poco». I ricordi dormienti si risvegliano, e Jean torna al tempo della sua prima giovinezza, quando dal collegio dove studiava tornava a Parigi, dai genitori sempre assenti, vivendo di vagabondaggi urbani e lavoretti occasionali. «Per me Parigi è disseminata di fantasmi, numerosi quanto le stazioni del metrò e tutti i relativi puntini luminosi che si accendevano quando capitava di premere i tasti sul tabellone dei cambi di linea». In questo vagabondare nel tempo e nello spazio Jean torna al ricordo sfuggente di donne dal fascino altrettanto sfuggente. Martine, Mireille, Geneviéve, Madeleine, la signora Hubersen... donne chiamate a rappresentare una lontana educazione sentimentale, nell’intreccio momentaneo di vite che in quel momento sembrano transitorie, ma lasciano sempre una traccia. E, spesso, un rimorso. Jean ricorda una ragazza della quale non farà il nome, incontrata nel 1965. In quel mese, ricorda, «mi aveva telefonato a notte fonda per annunciarmi che c’era stato un “incidente” nell’appartamento di Martine Hayward. Al 2 di Avenue Rodin, dove ci eravamo conosciuti e dove la domenica sera si riuniva un gruppo eterogeneo di persone (...) “i nottambuli”. Mi supplicava di raggiungerla». La donna, “per errore”, ha ucciso con un colpo di pistola un uomo, Ludo F., il cui cadavere giace «steso sul tappeto» nell’appartamento. Da questo momento il racconto si tinge di giallo, senza però mai abbandonare l’indeterminatezza dei fatti, dei luoghi, delle occorrenze, delle fughe. Tutto alla fine sbiadisce inesorabilmente nel tempo, con l’illusione di segnare e ritrovare volti e tracce come sulle mappe dei metrò: «Ero certo che in futuro sarebbe stato sufficiente scrivere su uno schermo il nome di una persona incrociata tempo prima, e un punto rosso ti avrebbe indicato il luogo di Parigi dove avresti potuto ritrovarla». Ma basterebbe per non perdersi di nuovo? —

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