Platonov, il Cechov incompiuto racconta il vuoto e la sete d’amore

TRIESTE. Durante i tumulti della rivoluzione russa del 1917, la sorella di Anton Cechov nascose in una cassetta di sicurezza a Mosca molti manoscritti del fratello per proteggerli. La cassetta fu aperta soltanto quattro anni dopo e fu scoperta un’opera teatrale del tutto sconosciuta del grande autore russo: “Bezotcovš č ina” che significa “orfano di padre” a indicare un’opera “Senza Titolo”.
Quest’opera, “Platonov”, arriva ora sul palcoscenico della Sala Bartoli da martedì, alle 19.30, al 31 marzo per la regia di Marco Lorenzi ed è una creazione della compagnia Il Mulino di Amleto.
Cechov la scrisse a soli 21 anni e rappresenta il fallimento della sua utopia giovanile di raccontare la vita appieno, nei suoi più profondi meccanismi. In “Platonov” – suo primo dramma – tale utopia si scontra infatti contro la vita stessa e l’impossibilità di coglierla nella sua interezza in un dramma teatrale. “Platonov” appare allora come un testo non concluso, ricchissimo di azione, personaggi, argomenti affrontati, molto spesso lo si considera addirittura “non rappresentabile”…
In realtà, evidenziano gli artisti de “Il Mulino di Amleto” «Questo è“Platonov”: un’opera non finita per esseri umani non finiti, incompleti, incerti, resi fragili dal loro “voler essere” che si scontra inevitabilmente con ciò che sono nella realtà. Come noi». È dunque l’espressione del talento che già negli anni giovanili Cechov possedeva nell’osservare il genere umano e di coglierne i motivi universali e profondi, quelli che ancora oggi ci parlano con intensità.
Il dramma racconta di una calda estate che i protagonisti trascorrono fra fiumi di parole e di vodka nella tenuta ormai decadente di Anna Petrovna. Fra i frequentatori appaiono Sergej Pavlovic Vojnjcev – figliastro di Anna e artista teatrale – il ricco Porfirij, con il figlio medico Kirill, ma soprattutto il maestro elementare Platonov e sua moglie Sasha, tradita e infelice. Dall’uomo sono infatti attratte la stessa Anna e la giovane Sofja: dipinte nei toni di una vacanza festosa, le scene fra costoro rivelano in realtà il vuoto di molti animi, la solitudine dei personaggi e la loro talvolta inconsistente, talaltra disperata sete d’amore.
«Per raccontare la tenuta di Anna e Vojinicev e la “carne umana” che la abita – anticipa il regista Marco Lorenzi – ho bisogno di una vetrata, tanti bicchieri e bottiglie trasparenti come lo sguardo degli attori e le loro lacrime, un lungo tavolo dove tutti si incontrano, un video per cogliere i dettagli di questa umanità, usare il “voi” come Cĕchov per poi scivolare nel “tu”, perché il rapporto tra due persone sta cambiando». Anche al pubblico però, la compagnia de Il Mulino di Amleto chiede qualcosa: di abbandonare gli schematismi della fruizione teatrale. «Questo raccontiamo – conclude il regista – amore, gioia e vita. In sintesi, un allestimento scarno, non realistico ma vero, puro, che chiede al pubblico di essere e sentirsi parte della storia che viene raccontata. Avvicinare le distanze per condividere la furia, le emozioni e i dolori che esploderanno inevitabili». —
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