Premio Nobel a Gurnah, il rifugiato che ha raccontato il colonialismo

Lo scrittore tanzaniano sorpreso da Stoccolma: «I migranti sono una ricchezza» In Italia usciti per Garzanti i libri ’Il disertore”, “Paradiso” e “Sulla riva del mare”
Caterina Soffici

ROMA

Anche quest’anno il Nobel non ha rispettato i pronostici, ma sapendo leggere tra le righe l’assegnazione allo scrittore Abdulrazak Gurnah «per la sua appassionata e risoluta narrazione degli effetti del colonialismo e del destino dei rifugiati tra culture e continenti» (come si legge nella motivazione dell’Accademia di Svezia), se pure non prevedibile, non è totalmente imprevisto. Nato nel 1948 nell’isola di Zanzibar (oggi Tanzania), Gurnah vive dall’età di 18 anni in Inghilterra, dove è approdato nel 1964 scappando dalle violente rivolte postcoloniali nel suo Paese. Un rifugiato politico, quindi, il primo nero premiato a Stoccolma da oltre un ventennio e il quinto di origine africana (dopo il nigeriano Wole Soyinka nel 1986, l’egiziano Naguib Mahfouz nel 1988, i sudafricani Nadine Gordimer nel 1991 e J. M. Coetzee nel 2003 e Doris Lessing, metà inglese metà Zimbabwe, nel 2007): ci sono tutti gli elementi per dire che a Stoccolma hanno fatto una scelta in linea con lo spirito del tempo, molto «woke» come si dice.

Può piacere o meno e la materia sarà sicuramente motivo di polemiche e discussioni, come accade ormai ogni anno, se cioè il risvolto politico del Nobel non abbia preso il sopravvento sul lato squisitamente letterario. Ma non avendolo letto, è difficile dire. In Italia Gurnah è praticamente sconosciuto, non così nel mondo anglofono: la sua madre lingua è lo swahili, ma scrive in inglese. Onore a Oliviero Ponte di Pino e a Garzanti che hanno tradotto alcuni dei suoi libri - Il disertore, Paradiso, Sulla riva del mare - tutti attualmente fuori catalogo, che ci si augura saranno ristampati al più presto.

Ma è evidente che questo Nobel arriva dopo un anno di turbolenze identitarie, durante il quale sono state abbattute le statue degli schiavisti e gli studenti delle più prestigiose università del mondo anglofono hanno protestato a gran voce per la rimozione di immagini imperialiste (nel mirino della cancel culture è finito anche il ritratto della regina Elisabetta a Oxford) e per l’apertura a una maggiore diversità nei corsi di studio, con l’introduzione di filoni letterari che non rappresentassero solo la cultura bianca e mainstream. A ciò si aggiunga la polemica di una giornalista svedese (Greta Thurfjell sul quotidiano Dagens Nyheter), rilanciata anche dal New York Times, la quale osservava come 95 dei 117 premi assegnati vengono da Europa e America del Nord e che solo 16 sono donne. «Può davvero andare avanti così?» si chiedeva? Così poteva essere una donna nera, che sarebbe stato il massimo del politicamente corretto. Ma invece è un uomo, comunque nero.

Non conoscendolo, ci si affida alle sue parole. In una bella intervista rilasciata di recente all’uscita del suo libro Afterlives al sito web «Africa in Words» dice una frase che sembra un manifesto: «Il mio interesse non è scrivere sulla guerra o sulla bruttezza del colonialismo. Voglio piuttosto essere sicuro che il contesto in cui sono avvenuti la guerra e il colonialismo sia compreso. E si comprenda che le persone in quel contesto erano persone con intere esistenze. Voglio mostrare come le persone ferite dalla guerra e dalla vita affrontano queste circostanze».

Gurnah è una voce autorevole di quella letteratura inglese che punta il dito contro l’imperialismo britannico e i disastri provocati dalla decolonizzazione dell’Africa nel secondo dopoguerra (piccola nota: nella spartizione del Corno d’Africa tra Germania e Inghilterra, Zanzibar fu assegnato agli inglesi e divenne protettorato della Corona, poi inglobato dalla Tanzania nel 1964).

Lo fa con un occhio alla Storia e ha insegnato per anni letteratura postcoloniale all’Università del Kent, ha curato una serie di saggi sulla scrittura africana e sulla narrativa postcoloniale contemporanea (Africa, Caraibi e India in particolare). Ma nei suoi dieci romanzi, nei quali attinge a piene mani all’esperienza personale, sembra più interessato a come la Storia impatti le vite dei singoli e delle comunità, quelle lasciate alle spalle e quelle di approdo. I primi tre, Memory of Departure (1988), Pilgrims Way e Dottie, trattano tutti dell’esperienza degli immigrati in Gran Bretagna; Paradise (selezionato per il Booker Prize nel 1994) racconta di un ragazzo in un Paese dell’Africa orientale segnato dal colonialismo; e Admiring Silence di un giovane che lascia Zanzibar per l’Inghilterra, dove si sposa e diventa insegnante.

Il vincitore ha commentato su Twitter: «Dedico questo premio all’Africa, agli africani e a tutti i miei lettori».

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