Quei fagioli magici nei refettori delle scuole che sfamavano i bambini poveri di Trieste

Diana De Rosa conclude la trilogia dedicata al rapporto tra cibo e organizzazione sociale, dall’impero asburgico alla seconda guerra mondiale 

cronache

Claudio Ernè

«Chi deve andare alla refezione può uscire adesso dall’aula. Gli altri che vanno a casa, devono invece attendere per uscire il suono del campanello».

Queste parole, quasi un ordine sono state pronunciate nel lontano 1958 in un’aula della scuola elementare Edmondo de Amicis, un austero edificio di mattoni rossi posto in via Combi, nel rione di San Vito, tra le case dei ferrovieri. Cinque o sei ragazzini si erano alzati quasi di scatto dai loro banchi verdi ed erano usciti nel corridoio del secondo piano, obbedendo alle parole del maestro Bruno D. Un attimo dopo scendevano veloci le scale per raggiungere nel sotterraneo della stessa scuola, vicino alla vecchia palestre la sala delle refezione dove avrebbero pranzato. Gli altri scolari avevano atteso il suono del campanello e sarebbe scesi nell’atrio, ordinatamente, in una doppia fila, sorvegliati dal maestro. Nelle quattro rampe di scale che li separavano dall’uscita l’odore del cibo si spandeva lentamente. Minestre, sughi, l’acre odore della cipolla. Refezione, il pasto degli orfani e dei figli delle famiglie povere: disoccupati, braccianti ma, all’epoca soprattutto i bambini che vivevano nelle baracche dei campi profughi, come quello realizzato a Campo Marzio, accanto all’antica caserma di artiglieria che fu anche Museo del mare.

Alla refezione scolastica, una istituzione caritatevole e benefica che fu mantenuta in vita dal lontano 1898 fino al 1970, la storica Diana De Rosa ha dedicato un libro frutto delle sue prolungate e determinate ricerche: ha per titolo “Il fagiolo magico” e dopo una comparsa poco più che virtuale bloccata dall’epidemia che sta mettendo in ginocchio il mondo, è pronto ora a essere diffuso nelle librerie e presentato al pubblico. Lo ha stampato Comunicarte edizioni (pagg. 150, euro 19) in una tipografia di Udine e chiude una trilogia che la stessa autrice ha dedicato al rapporto tra cibo e organizzazione sociale. La prima di queste ricerche era uscita sei anni fa in un volume dal titolo “Pane, brodo e minestre” e ricostruiva, documenti alla mano, quale era stato il cibo dei poveri, degli ammalati, dei bambini, dei soldati e marinai nella Trieste asburgica. E soprattutto, com’è accaduto ora per la ricerca sulla refezione, quale è stato l’uso che il Potere ha esercitato sui più deboli attraverso il cibo. Il secondo libro ha portato alla ribalta come le donne triestine cercavano di dar da mangiare alla loro famiglia in “anni bui”, dalla proclamazione delle legge razziali nel settembre del 1938 in piazza Unità, alla conclusione del conflitto mondiale. Il libro zeppo di autarchiche ricette diligentemente annotate e di “conti” della spesa registrati minuziosamente su piccoli quaderni blu con la matita copiativa, ha per titolo “Una fiammata di arance”.

Gli assoluti protagonisti delle tre ricerche sfociate in altrettanti libri sono i fagioli, le patate, i piselli, le verze. Poca la pasta, rari il lardo, l’olio, la carne e la frutta fresca; inoltre il latte spesso veniva annacquato per aumentarne il volume nelle pance vuote dei bambini.

La ricerca di Diana De Rosa parte da lontano, dalla prima iniziativa varata dalla Società degli Amici dell’infanzia alla fine dell’800 sulla falsariga di quanto avveniva già in altre città europee. “Sarà merito di una associazione attiva sul fronte dell’assistenza ai minori di cui facevano parte importanti rappresentanti della borghesia triestina, se sarà introdotta la refezione scolastica” si legge nel primo capitolo del libro. “L’iniziativa verrà attivata l’11 gennaio 1897 per 40 scolari provenienti dalle scuole popolari di via Giotto e di via Kandler, in una trattoria al pianoterra di una casa al numero 3 di via Cologna”.

I documenti dicono che fu distribuita gratuitamente una razione di minestra, circa tre quarti di litro, condita con olio e lardo e una razione di pane di 120 grammi. Il pane distribuito ai ragazzi spesso veniva portato a casa per sfamare fratelli e sorelle. Del resto la miseria in quegli anni era diffusa e terribile; durante l’inverno le presenze nelle scuole dei rioni popolari calavano vistosamente perché un buon numero di alunni non aveva da calzare nemmeno un paio di scarpe e il freddo non poteva essere affrontato a piedi nudi. Il Comune si era affiancato alle società impegnate nell’assistenza ai minori e la “refezione” era diventata realtà nelle scuole di via dell’Istria, Kandler, Paolo Veronese e nei refettori di via Madonna del Mare, Tiziano Vecellio e Ruggero Manna. Coinvolti in trattorie e case private anche i ragazzi poveri di Guardiella, San Giovanni, Servola, Basovizza e Cattinara. L’assistenza alimentare era proseguita con difficoltà e carenze durante la guerra mondiale per riprendere con l’avvento del regime fascista. Anzi i vertici della Gioventù del Littorio - specie Renato Ricci - se ne erano appropriati e nei refettori accanto ai bambini e ai maestri erano comparsi gerarchi in divisa accompagnati da fotografi incaricati di mostrare attraverso i giornali l’anima sociale del fascismo. La scodella del Duce, la refezione dei balilla erano diventati un fenomeno di massa. Non più beneficenza ma diritto da esercitare con ordine e disciplina dopo aver pregato e salutato romanamente. Ben allineati col cucchiaio in mano. —

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